lunedì 2 giugno 2014

Quei ventenni della Fiat

Storie operaie a Bari


Nella storia di riscatto del mondo del lavoro, la Puglia fu sino alla fine degli anni ‘70 la terra del bracciantato. L’uomo simbolo dell’epopea popolare era Giuseppe Di Vittorio, bracciante autodidatta che guidò durissime lotte e divenne dirigente sindacale e politico di prim’ordine. Ma c’erano stati anche i lavoratori del mare, categoria sui generis, sparpagliata, protagonista di grandi scioperi in tempi lontani. Dagli anni ’50, inoltre, la figura del lavoratore nei principali centri urbani ma anche nei piccoli aveva preso le sembianze dell’operaio edile: forza lavoro che, decisiva nel boom economico e nel tumultuoso rifacimento edilizio, agli inizi del decennio ’60 si ribellò al supersfruttamento con sorprendente energia. E in quegli stessi anni nascevano in Puglia i poli industriali: figli delle politiche per il Mezzogiorno avviate dai governi democristiani e rilanciate dal nascente centro-sinistra; effetto, dunque, di una modernizzazione “neocapitalista” (come si diceva allora) e, d’altronde, risposta a nuovi bisogni sociali che esigevano occupazione, reddito, partecipazione al benessere.  
A Bari e nel suo entroterra c’erano nuclei di industria preesistenti. A parte alcuni opifici pubblici come la storica Manifattura dei Tabacchi, si trattava di piccole e medie industrie private, alcune delle quali competitive e relativamente moderne. Basti pensare alle Ferriere di Giovinazzo, che introdussero in Puglia la produzione dell’acciaio prima che negli anni ’60 sorgesse l’Italsider a Taranto – città, peraltro, che non aveva dovuto aspettare il Moloch siderurgico per diventare “operaia”, essendo tale già da lungo tempo grazie alla combattiva classe lavoratrice dell’Arsenale. Non a caso proprio dalle AFP giovinazzesi provenne un lavoratore battagliero – Tommaso Sicolo – che diventò stimato sindacalista, dirigente politico e parlamentare. Nella zona industriale fra Bari e Modugno, accanto alle aziende private locali – Calabrese, Balsamo, Uniblok – incominciarono a sorgere gli stabilimenti delle partecipazioni statali o comunque a capitale pubblico – dal gruppo Breda al Pignone Sud – che affiancarono quelli già attivi come la Stanic. Senza dimenticare l’Hettemarks, la fabbrica svedese di abbigliamento a prevalente manodopera femminile, che pure intraprese la sua attività a cavallo fra gli anni ’50 e ’60. L’arcipelago della nuova città industriale – ai cui margini spuntavano quartieri abitativi altamente problematici come il San Paolo e il Villaggio del Lavoratore – fu anche il luogo (o il non-luogo, per certi versi) dove si formò una giovane classe operaia di provenienza mista, fatta di contadini, muratori, apprendisti e studenti, che dové imparare da sola a riconoscere i propri diritti e a farli valere. Una classe operaia che solo in parte poteva ricorrere a memorie di scioperi bracciantili o di vertenze urbane del recente decennio, e per il resto faceva i conti con radici democristiane o cattoliche, talora fasciste o qualunquiste, con il clientelismo di certe assunzioni, con un paternalismo padronale che svelava facilmente il suo volto dispotico.
Ma questa generazione di lavoratori e lavoratrici fu educata dalla scossa della contestazione nel biennio ’68-69: che non era soltanto rivolta intellettuale di studenti universitari, ma fu anche ondata di rifiuto dei meccanismi autoritari della fabbrica oltre che rivendicazione di salari e condizioni di lavoro migliori. Nelle lotte contro le gabbie salariali, per la riforma pensionistica (quando il concetto di «riforma» non era ancora stato stravolto), per il rinnovo del contratto nazionale, gli operai di Bari trovarono anche la strada per contrastare l’arbitrio inveterato delle gerarchie interne e per costruire i primi elementi di potere contrattuale e di democrazia sindacale. E nell’incontro con il movimento studentesco, davanti ai cancelli degli stabilimenti e dentro i cortei cittadini, scoprirono ragioni per alimentare la coscienza di classe e la voglia di essere culturalmente all’altezza della controparte. Dall’interno stesso dei reparti, dal quotidiano fronteggiare il capo, il tecnico che taglia i tempi, il direttore del personale che infligge provvedimenti disciplinari, si andava selezionando una nuova leva di leader sindacali naturali, che avrebbero rinnovato la struttura dei sindacati e grazie alla quale si sarebbe verificato un avanzamento inaudito della sinistra nel mondo del lavoro.


Tale era la situazione quando nel capoluogo pugliese – come racconta Giovanni Spilotros – si apriva, nel 1970-71, lo stabilimento Fiat. E fu subito un salto di qualità. La più grande industria privata italiana decentrava parte delle sue produzioni nel Meridione, a Bari come a Termini Imerese e a Cassino (cui si aggiungeva l’Alfa Sud di Pomigliano, che, partecipata da Finmeccanica, sarebbe poi entrata nel gruppo Fiat), ovviamente col decisivo sostegno pubblico. Era un modo per decongestionare Torino, negli anni in cui a Mirafiori, al Lingotto, a Rivalta esplodeva incontenibile la ribellione operaia; ma era anche il frutto di una politica industriale, in tempi in cui lo sviluppo manifatturiero e la crescita del movimento operaio procedevano di pari passo (cosa che oggi suonerebbe come paradosso improbabile e irripetibile). La Fiat Sob prendeva posto nel sistema delle fabbriche baresi affermando immediatamente un ruolo di peso, in qualche modo egemone: per il carattere avanzato della produzione; per la costellazione da cui era accompagnata, di fabbriche ruotanti attorno al gruppo Fiat (OM e Riv Skf), sicché l’insieme veniva a costituire la più importante presenza industriale a Bari; e infine per l’alto numero degli addetti, molti dei quali formati a Torino a ridosso dell’«autunno caldo» (è ancora Spilotros a ricordarlo).
Il salto qualitativo era evidente pure nel tangibile contributo dei lavoratori Fiat alla dinamica della lotta operaia a Bari; dentro un movimento sindacale che era divenuto rapidamente adulto nell’ultimo biennio dei ’60, gli operai Fiat conquistavano nondimeno e ben presto un’autorevolezza significativa: incominciando, per prima cosa, a prendere le misure della dura situazione in fabbrica e a dispiegare una serie di vertenze che avrebbero migliorato sensibilmente le condizioni di lavoro. Nel frattempo, il contesto stava cambiando. Agli inizi degli anni ’70 il movimento studentesco spontaneo e assembleare aveva ceduto il posto ai gruppi strutturati, da un lato Pci-Fgci, dall’altro sinistra extraparlamentare (dal Circolo Lenin al Comitato Antifascista Antimperialista, a Lotta Continua). Erano prevalentemente questi gruppi a militare in modo continuativo davanti ai cancelli degli stabilimenti, distribuendo volantini quasi quotidianamente e rafforzando i picchetti nei giorni di sciopero. Ciò non toglie che, in quegli anni, nuove leve di studenti si susseguissero incessantemente nella “scoperta” della zona industriale, non appena si appassionavano agli scenari della politica intesa come conflitto, partecipazione e progetto rivoluzionario-utopico. E se ad avere difficoltà di relazioni con queste masse giovanili era soprattutto l’apparato tradizionale del Pci (sebbene percorso, esso stesso, da visibili mutamenti), importantissimo era invece l’atteggiamento dialogico degli operai. Questi avevano imparato molto dalla radicalità degli studenti, all’inizio; poi avevano compreso di esercitare a loro volta sugli agglomerati di giovani intellettuali un irresistibile ascendente ideologico e culturale, quasi mitologico. Perciò li accettavano e sapevano ricondurli alla buona causa della lotta operaia; ne tolleravano perfino gli eccessi riassorbendoli nella faticosa gestione quotidiana del conflitto. Emblematico è un episodio ricordato da Spilotros: le file di automobili dei crumiri vandalizzate nel parcheggio esterno della Fiat per mano di “estremisti”; azione non richiesta e non voluta dagli operai; i quali però dovettero constatare nei giorni successivi (non senza una tacita soddisfazione, immaginiamo) che il tasso di crumiraggio era precipitosamente calato.
La comunanza di esperienza e di sentimento era un dato assolutamente reale, per lo meno nei momenti acuti del conflitto e nei grandi riti collettivi, i picchetti, le manifestazioni. Lo era nel ricorrente “fronte a fronte” con le forze dell’ordine che tentavano regolarmente di tenere aperti i cancelli durante gli scioperi, al fine di garantire il “diritto al lavoro”. Ci si sentiva senza dubbio più affratellati quando tutti insieme, lavoratori e studenti, si era stati il bersaglio di una violenta carica di polizia con i lacrimogeni nel piazzale davanti alla Fiat, seguita da un’accanita caccia all’uomo per tutta la zona industriale. In definitiva, gli operai erano attori di una profonda spinta unitaria: slogan quali «operai-studenti uniti nella lotta», «fabbrica-scuola una lotta sola», come d’altronde «Nord e Sud uniti nella lotta», non erano pura retorica;  erano interpretazioni del proprio agire pubblico, chiavi di lettura, espressioni di senso.  
È attraverso questo ineguagliabile tirocinio di operai ventenni che si consolida un’ampia avanguardia legata alla massa dei lavoratori da quella connessione sentimentale che sorreggerà tutti nei decenni successivi, nella quotidianità dell’esperienza lavorativa vissuta con intatta dignità, nei momenti critici tanto quanto nei successi faticosamente strappati, e nelle proiezioni “esterne”, politiche: le manifestazioni contro l’assassinio di Benedetto Petrone (1977), contro il rapimento e l’assassinio di Moro (1978), la grande campagna di solidarietà durante i fatidici 35 giorni della Fiat torinese nel 1980; e, nello stesso anno, la straordinaria carovana di roulotte che parte dalla Fiat di Bari per soccorrere i terremotati dell’Irpinia. Tutta la pluridecennale vicenda rievocata da Giovanni Spilotros disegna un’immagine della classe operaia che richiama l’idea antica del proletariato come «classe generale»; un soggetto cosciente che si pone per quanto è possibile alla direzione della società; che si fa carico di problemi generali a partire da un’ottica alternativa rispetto a quella del padronato. L’operaio che diventa detentore di un’orgogliosa professionalità; che ama la sua fabbrica dopo aver lottato per cambiarla; che tratta da pari a pari con l’azienda imponendo la propria logica ma contribuendo a migliorare l’organizzazione del lavoro, a qualificare la produzione, a risolvere problemi tecnici; l’operaio che si fa dirigente nel medesimo tempo in cui si fa sindacato e si fa partito.
Certo, sembra ora di essere distanti anni luce da quel clima e da quelle idealità. Certo, nell’epoca recente della crisi, delle chiusure di stabilimenti e cessioni di rami aziendali, del lavoro flessibile e precario, delle politiche antisindacali sfacciatamente esibite, quella che fu la Fiat di Bari sembra comunque aver vissuto come un’oasi nel deserto: o meglio, come un’isola nella tempesta, che più  di altre realtà del grande gruppo automobilistico (per non parlare di tante aziende della zona industriale barese) ha saputo difendere il difendibile e limitare il danno. I ventenni sono diventati sessantenni, attraversando molte peripezie. Nel corso del tempo si sono anche separati, perché la Fiat Sob è diventata Magneti Marelli e un pezzo d’azienda è andata a far nascere lo stabilimento Bosch. Così Giovanni si è diviso dal non dimenticato Stefano Netti, come lui operaio cólto, ragionatore, di raffinata preparazione politica. Qualcuno è andato in pensione, altri sono rimasti “sul pezzo”. Perché la guerra di posizione non è mai finita.

Pasquale Martino


Postfazione a: Giovanni Spilotros, Fabbrica. Storie e lotte alla Fiat di Bari, Edizioni dal Sud, Bari, 2014