Storie operaie a Bari
Nella
storia di riscatto del mondo del lavoro, la Puglia fu sino alla fine degli anni
‘70 la terra del bracciantato. L’uomo simbolo dell’epopea popolare era Giuseppe
Di Vittorio, bracciante autodidatta che guidò durissime lotte e divenne
dirigente sindacale e politico di prim’ordine. Ma c’erano stati anche i
lavoratori del mare, categoria sui generis, sparpagliata, protagonista di
grandi scioperi in tempi lontani. Dagli anni ’50, inoltre, la figura del
lavoratore nei principali centri urbani ma anche nei piccoli aveva preso le
sembianze dell’operaio edile: forza lavoro che, decisiva nel boom economico e nel
tumultuoso rifacimento edilizio, agli inizi del decennio ’60 si ribellò al
supersfruttamento con sorprendente energia. E in quegli stessi anni nascevano
in Puglia i poli industriali: figli delle politiche per il Mezzogiorno avviate
dai governi democristiani e rilanciate dal nascente centro-sinistra; effetto,
dunque, di una modernizzazione “neocapitalista” (come si diceva allora) e,
d’altronde, risposta a nuovi bisogni sociali che esigevano occupazione, reddito,
partecipazione al benessere.
A
Bari e nel suo entroterra c’erano nuclei di industria preesistenti. A parte
alcuni opifici pubblici come la storica Manifattura dei Tabacchi, si trattava
di piccole e medie industrie private, alcune delle quali competitive e
relativamente moderne. Basti pensare alle Ferriere di Giovinazzo, che
introdussero in Puglia la produzione dell’acciaio prima che negli anni ’60
sorgesse l’Italsider a Taranto – città, peraltro, che non aveva dovuto
aspettare il Moloch siderurgico per diventare “operaia”, essendo tale già da
lungo tempo grazie alla combattiva classe lavoratrice dell’Arsenale. Non a caso
proprio dalle AFP giovinazzesi provenne un lavoratore battagliero – Tommaso
Sicolo – che diventò stimato sindacalista, dirigente politico e parlamentare. Nella
zona industriale fra Bari e Modugno, accanto alle aziende private locali –
Calabrese, Balsamo, Uniblok – incominciarono a sorgere gli stabilimenti delle
partecipazioni statali o comunque a capitale pubblico – dal gruppo Breda al
Pignone Sud – che affiancarono quelli già attivi come la Stanic. Senza
dimenticare l’Hettemarks, la fabbrica svedese di abbigliamento a prevalente
manodopera femminile, che pure intraprese la sua attività a cavallo fra gli
anni ’50 e ’60. L’arcipelago della nuova città industriale – ai cui margini spuntavano
quartieri abitativi altamente problematici come il San Paolo e il Villaggio del
Lavoratore – fu anche il luogo (o il non-luogo, per certi versi) dove si formò
una giovane classe operaia di provenienza mista, fatta di contadini, muratori,
apprendisti e studenti, che dové imparare da sola a riconoscere i propri
diritti e a farli valere. Una classe operaia che solo in parte poteva ricorrere
a memorie di scioperi bracciantili o di vertenze urbane del recente decennio, e
per il resto faceva i conti con radici democristiane o cattoliche, talora
fasciste o qualunquiste, con il clientelismo di certe assunzioni, con un
paternalismo padronale che svelava facilmente il suo volto dispotico.
Ma
questa generazione di lavoratori e lavoratrici fu educata dalla scossa della
contestazione nel biennio ’68-69: che non era soltanto rivolta intellettuale di
studenti universitari, ma fu anche ondata di rifiuto dei meccanismi autoritari
della fabbrica oltre che rivendicazione di salari e condizioni di lavoro
migliori. Nelle lotte contro le gabbie salariali, per la riforma pensionistica
(quando il concetto di «riforma» non era ancora stato stravolto), per il
rinnovo del contratto nazionale, gli operai di Bari trovarono anche la strada
per contrastare l’arbitrio inveterato delle gerarchie interne e per costruire i
primi elementi di potere contrattuale e di democrazia sindacale. E
nell’incontro con il movimento studentesco, davanti ai cancelli degli
stabilimenti e dentro i cortei cittadini, scoprirono ragioni per alimentare la
coscienza di classe e la voglia di essere culturalmente all’altezza della
controparte. Dall’interno stesso dei reparti, dal quotidiano fronteggiare il
capo, il tecnico che taglia i tempi, il direttore del personale che infligge
provvedimenti disciplinari, si andava selezionando una nuova leva di leader
sindacali naturali, che avrebbero rinnovato la struttura dei sindacati e grazie
alla quale si sarebbe verificato un avanzamento inaudito della sinistra nel
mondo del lavoro.
Tale
era la situazione quando nel capoluogo pugliese – come racconta Giovanni
Spilotros – si apriva, nel 1970-71, lo stabilimento Fiat. E fu subito un salto
di qualità. La più grande industria privata italiana decentrava parte delle sue
produzioni nel Meridione, a Bari come a Termini Imerese e a Cassino (cui si
aggiungeva l’Alfa Sud di Pomigliano, che, partecipata da Finmeccanica, sarebbe
poi entrata nel gruppo Fiat), ovviamente col decisivo sostegno pubblico. Era un
modo per decongestionare Torino, negli anni in cui a Mirafiori, al Lingotto, a
Rivalta esplodeva incontenibile la ribellione operaia; ma era anche il frutto
di una politica industriale, in tempi in cui lo sviluppo manifatturiero e la
crescita del movimento operaio procedevano di pari passo (cosa che oggi suonerebbe
come paradosso improbabile e irripetibile). La Fiat Sob prendeva posto nel
sistema delle fabbriche baresi affermando immediatamente un ruolo di peso, in
qualche modo egemone: per il carattere avanzato della produzione; per la costellazione
da cui era accompagnata, di fabbriche ruotanti attorno al gruppo Fiat (OM e Riv
Skf), sicché l’insieme veniva a costituire la più importante presenza
industriale a Bari; e infine per l’alto numero degli addetti, molti dei quali
formati a Torino a ridosso dell’«autunno caldo» (è ancora Spilotros a ricordarlo).
Il
salto qualitativo era evidente pure nel tangibile contributo dei lavoratori
Fiat alla dinamica della lotta operaia a Bari; dentro un movimento sindacale
che era divenuto rapidamente adulto nell’ultimo biennio dei ’60, gli operai
Fiat conquistavano nondimeno e ben presto un’autorevolezza significativa:
incominciando, per prima cosa, a prendere le misure della dura situazione in
fabbrica e a dispiegare una serie di vertenze che avrebbero migliorato
sensibilmente le condizioni di lavoro. Nel frattempo, il contesto stava
cambiando. Agli inizi degli anni ’70 il movimento studentesco spontaneo e
assembleare aveva ceduto il posto ai gruppi strutturati, da un lato Pci-Fgci,
dall’altro sinistra extraparlamentare (dal Circolo Lenin al Comitato
Antifascista Antimperialista, a Lotta Continua). Erano prevalentemente questi
gruppi a militare in modo continuativo davanti ai cancelli degli stabilimenti,
distribuendo volantini quasi quotidianamente e rafforzando i picchetti nei
giorni di sciopero. Ciò non toglie che, in quegli anni, nuove leve di studenti
si susseguissero incessantemente nella “scoperta” della zona industriale, non
appena si appassionavano agli scenari della politica intesa come conflitto,
partecipazione e progetto rivoluzionario-utopico. E se ad avere difficoltà di
relazioni con queste masse giovanili era soprattutto l’apparato tradizionale
del Pci (sebbene percorso, esso stesso, da visibili mutamenti), importantissimo
era invece l’atteggiamento dialogico degli operai. Questi avevano imparato
molto dalla radicalità degli studenti, all’inizio; poi avevano compreso di
esercitare a loro volta sugli agglomerati di giovani intellettuali un
irresistibile ascendente ideologico e culturale, quasi mitologico. Perciò li
accettavano e sapevano ricondurli alla buona causa della lotta operaia; ne
tolleravano perfino gli eccessi riassorbendoli nella faticosa gestione
quotidiana del conflitto. Emblematico è un episodio ricordato da Spilotros: le
file di automobili dei crumiri vandalizzate nel parcheggio esterno della Fiat
per mano di “estremisti”; azione non richiesta e non voluta dagli operai; i
quali però dovettero constatare nei giorni successivi (non senza una tacita
soddisfazione, immaginiamo) che il tasso di crumiraggio era precipitosamente
calato.
La
comunanza di esperienza e di sentimento era un dato assolutamente reale, per lo
meno nei momenti acuti del conflitto e nei grandi riti collettivi, i picchetti,
le manifestazioni. Lo era nel ricorrente “fronte a fronte” con le forze
dell’ordine che tentavano regolarmente di tenere aperti i cancelli durante gli
scioperi, al fine di garantire il “diritto al lavoro”. Ci si sentiva senza
dubbio più affratellati quando tutti insieme, lavoratori e studenti, si era
stati il bersaglio di una violenta carica di polizia con i lacrimogeni nel
piazzale davanti alla Fiat, seguita da un’accanita caccia all’uomo per tutta la
zona industriale. In definitiva, gli operai erano attori di una profonda spinta
unitaria: slogan quali «operai-studenti uniti nella lotta», «fabbrica-scuola
una lotta sola», come d’altronde «Nord e Sud uniti nella lotta», non erano pura
retorica; erano interpretazioni del
proprio agire pubblico, chiavi di lettura, espressioni di senso.
È
attraverso questo ineguagliabile tirocinio di operai ventenni che si consolida
un’ampia avanguardia legata alla massa dei lavoratori da quella connessione
sentimentale che sorreggerà tutti nei decenni successivi, nella quotidianità
dell’esperienza lavorativa vissuta con intatta dignità, nei momenti critici
tanto quanto nei successi faticosamente strappati, e nelle proiezioni “esterne”,
politiche: le manifestazioni contro l’assassinio di Benedetto Petrone (1977),
contro il rapimento e l’assassinio di Moro (1978), la grande campagna di
solidarietà durante i fatidici 35 giorni della Fiat torinese nel 1980; e, nello
stesso anno, la straordinaria carovana di roulotte che parte dalla Fiat di Bari
per soccorrere i terremotati dell’Irpinia. Tutta la pluridecennale vicenda rievocata
da Giovanni Spilotros disegna un’immagine della classe operaia che richiama l’idea
antica del proletariato come «classe generale»; un soggetto cosciente che si pone
per quanto è possibile alla direzione della società; che si fa carico di
problemi generali a partire da un’ottica alternativa rispetto a quella del
padronato. L’operaio che diventa detentore di un’orgogliosa professionalità;
che ama la sua fabbrica dopo aver lottato per cambiarla; che tratta da pari a
pari con l’azienda imponendo la propria logica ma contribuendo a migliorare
l’organizzazione del lavoro, a qualificare la produzione, a risolvere problemi
tecnici; l’operaio che si fa dirigente nel medesimo tempo in cui si fa sindacato
e si fa partito.
Certo,
sembra ora di essere distanti anni luce da quel clima e da quelle idealità.
Certo, nell’epoca recente della crisi, delle chiusure di stabilimenti e
cessioni di rami aziendali, del lavoro flessibile e precario, delle politiche
antisindacali sfacciatamente esibite, quella che fu la Fiat di Bari sembra
comunque aver vissuto come un’oasi nel deserto: o meglio, come un’isola nella
tempesta, che più di altre realtà del
grande gruppo automobilistico (per non parlare di tante aziende della zona
industriale barese) ha saputo difendere il difendibile e limitare il danno. I
ventenni sono diventati sessantenni, attraversando molte peripezie. Nel corso
del tempo si sono anche separati, perché la Fiat Sob è diventata Magneti
Marelli e un pezzo d’azienda è andata a far nascere lo stabilimento Bosch. Così
Giovanni si è diviso dal non dimenticato Stefano Netti, come lui operaio cólto,
ragionatore, di raffinata preparazione politica. Qualcuno è andato in pensione,
altri sono rimasti “sul pezzo”. Perché la guerra di posizione non è mai finita.
Pasquale Martino
Postfazione a: Giovanni Spilotros, Fabbrica.
Storie e lotte alla Fiat di Bari, Edizioni dal Sud, Bari, 2014