Analogie
della Storia.
Augusto
e la fine del partito popolare
La
Storia si ripete. Anche se il variare incessante della sostanza e della forma
rende difficile decifrare le analogie. Per esempio, è successo più d’una volta
che un movimento politico progressista di portata storica, fallendo il suo
obiettivo di cambiamento, abbia generato alla lunga un inedito sistema di
conservazione. La Sinistra – si direbbe oggi, semplificando – che finisce col
realizzare il compito della Destra. E ciò è avvenuto per una coincidenza tra l’insuccesso
dei soggetti chiamati a interpretare quella tendenza storica e la capacità
degli avversari di «cambiare tutto per non cambiare niente». Un modello
esemplare del fenomeno suddetto si rintraccia nella storia antica, quel vasto
complesso di esperienze che grandi scrittori come Tucidide e Machiavelli
considerarono una preziosa lezione di politica.
A
metà del II secolo a.C. fu lanciata una sfida ambiziosa che aveva come posta in
gioco il potere sociale e istituzionale nello Stato più importante del
Mediterraneo: Roma repubblicana. Il popolo contro il senato, i nullatenenti
contro i grandi proprietari terrieri.
Sotto la guida dei fratelli Gracchi, il “partito popolare” – non un
partito nel senso moderno, bensì un agglomerato di interessi, di famiglie, di
gruppi sociali – si dette un programma di riforme dalla sostanza
rivoluzionaria: porre un limite all’eccesso della proprietà privata,
distribuire la terra ai proletari, estendere la cittadinanza romana alle
popolazioni italiche, scuotere l’onnipotenza del ceto senatorio promuovendo sul
piano politico il ceto cosiddetto equestre. La reazione della classe dominante
a questa strategia riformatrice fu improntata per lungo tempo alla violenza più
estrema; si sviluppò in tal modo la «guerra civile dei cento anni» (Lucien
Jerphagnon) che dopo alterne vicende di conflitti sanguinosi e di instabili compromessi
sfociò nella fine della repubblica e nella
instaurazione del principato: un regime dispotico e “leaderistico” che tuttavia
venne descritto come una repubblica rinnovata.
Nel
corso del tempo il movimento rivoluzionario – quello dei Gracchi e dei tribuni
della plebe, di Saturnino, di Sertorio, del controverso Gaio Mario – aveva
finito con l’estinguersi: ridotto a non più che una dignitosa memoria storica,
di slogan e di simboli, consegnò la sua eredità a singole figure di spicco che
riuscirono ad assemblare un partito personale. La più eminente di queste
personalità fu Giulio Cesare, il quale peraltro conservava nelle proprie radici
familiari un legame con la tradizione popolare, essendo nipote di Mario. E
sapeva ancora parlare per vecchi slogan («liberare il popolo dal dominio di una
fazione», scrisse nel memoriale sulla guerra civile). Ma Cesare appariva ancora
troppo amico della plebe (ingrediente essenziale del “cesarismo”, come lo sarà
del “bonapartismo”) e troppo eversivo agli occhi degli oltranzisti conservatori,
cosicché fu rovesciato da una congiura.
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Tiberio e Gaio Gracco |
I
tempi non erano ancora maturi, ma presto lo divennero. Fu la volta del
giovanissimo Ottaviano, il futuro Augusto, che nella sua storia personale non
aveva nulla tranne l’essere stato adottato in maniera alquanto fortunosa da
Cesare. Non era una personalità
brillante come il predecessore, non possedeva carisma né capacità oratorie o
guerresche. Era dotato però di realismo,
abilità di manovra e cinismo, e inoltre ebbe fin dall’inizio ottimi
collaboratori (artefici delle sue vittorie militari, tessitori di alleanze
politiche, suggeritori di un’accorta politica culturale). Vinse alleandosi con i
conservatori come Cicerone e con i fedeli cesariani come Marco Antonio, poi
sbarazzandosi degli uni e degli altri. Vinse
appropriandosi di valori reazionari come il patriarcato, la restaurazione
religiosa, la netta separazione fra liberi e schiavi, e garantendo gli
interessi di latifondisti e senatori di cui, in pari tempo, riduceva il potere
politico. Fu agevolato dal desiderio di pace, dalla stanchezza e dalla
rassegnazione che dilagavano in tutta la società. E le classi possidenti capirono
la convenienza di affidarsi a un tale monstrum
istituzionale presidiato dalle legioni. I nuovi proletari, i soldati,
ricevettero pezzi di terra grazie a spaventosi espropri che colpirono i
contadini. Paradossalmente, la legittimazione di Augusto poggiava sul
conferimento a vita dei poteri dei tribuni della plebe, che erano stati a suo
tempo la magistratura popolare per eccellenza. I pochi vecchi seguaci di Mario
ancora viventi, e i cesariani di mezza età, si illudevano che con quel principe
il loro partito fosse arrivato finalmente al potere dopo tanto soffrire. Ovviamente
non era così. Se il senato era ormai addomesticato, anche i comizi e le
assemblee popolari si avviavano a diventare una finzione. Un movimento epocale aveva
cessato di vivere: la lotta per la libertà e per l’uguaglianza sarebbe rinata prima
o poi in forme diverse, avrebbe percorso strade sconosciute in altre regioni
del mondo.
Pasquale Martino
2014