Quel
soffio d'aria nuova nell’Italia liberata
70
anni del primo numero della rivista di cultura
70
anni dalla Liberazione. Un momento storico terribile e generoso, in cui
l’Italia uscita dalle macerie ripensò se stessa. È in questa chiave che
andrebbe letta la vicenda emblematica del «Politecnico», il settimanale fondato
da Elio Vittorini il cui n° 1 apparve il 29 settembre ’45. La rivista – spesso
ricordata (ingiustamente) solo per la polemica con Togliatti – ebbe poco più di
due anni di vita, meteora in un’epoca tumultuosa: nascita della repubblica, elezione
della Costituente, infine la cacciata delle sinistre dal governo. Il 1945-46 fu
un’età di riviste culturali, come il primo Novecento. A «Rinascita» uscita nel
’44 si affiancarono – per citare solo le principali – un’altra rivista di orientamento
comunista, «Società», e tre di area azionista, «La Nuova Europa» di
Salvatorelli, «Belfagor» di Luigi Russo e «Il Ponte» di Piero Calamandrei (le
ultime due, di lunga e gloriosa vita). Ma la più dirompente fu «Il
Politecnico».
Vittorini
era uno degli intellettuali comunisti di maggiore rilievo: già noto come
romanziere, traduttore, consulente editoriale, non aveva una formazione
marxista – lo dichiarò lui stesso – e proveniva dal contesto della fronda
fascista in cui s’erano formati parecchi giovani oppositori; nel ’45 pubblicò Uomini e no, il primo romanzo sulla
Resistenza, composto “in tempo reale” alla fine del ‘44. Il nuovo settimanale da
lui diretto, edito a Torino da Einaudi ma redatto a Milano, riprendeva il nome
della rivista di Carlo Cattaneo, per affermare l’idea di una cultura integrale,
umanistica e scientifica, legata alla società e alla vita reale. Aveva il
formato di un quotidiano, con doppia colorazione, nera e rossa, grafica assai
innovativa curata da Albe Steiner, largo uso della fotografia e, talora, del
fumetto. La presentazione poneva in modo radicale il tema dalla débacle della cultura borghese europea
di fronte alla tragedia della guerra nazista e alla distruzione di tante vite:
«non vi è delitto commesso dal fascismo – scriveva il direttore – che questa
cultura non avesse insegnato ad esecrare già da tempo»; eppure non lo aveva impedito.
La «nuova cultura» doveva essere insieme ricerca, sperimentazione e
divulgazione, nonché indagine sociale ed essa stessa forma di lotta. «Il
Politecnico», che arrivò a raggiungere settantamila lettori, pubblicava ampie
inchieste sulla Fiat e sulla Montecatini e corposi servizi sul Meridione –
notevoli quelli sul bracciantato pugliese (curati per lo più dal fratello di
Elio, Ugo Vittorini, che abitò in Puglia) e sulla Basilicata (affidati al
lucano Alberto Iacoviello, futuro corrispondente de «l’Unità» e di
«Repubblica»). Temi ricorrenti erano la critica del Vaticano e dei monopoli
industriali – due punti su cui il settimanale scavalcava “a sinistra” la
prudenza del Pci – e la battaglia per la riforma della scuola: qui vennero i
contributi di Concetto Marchesi, della pedagogista Dina Bertoni Jovine e della
segretaria di redazione, Luisa Succi (che scrisse anche sulla emancipazione
femminile). Ai servizi internazionali (Egitto, Palestina, Indonesia, Argentina,
India) si aggiungevano quelli sulle conquiste sociali in Urss ma anche in Usa
(il sogno della grande alleanza antinazista non era ancora crollato). La parte
del leone era senza dubbio riservata alle arti: letteratura, pittura, scultura,
architettura, teatro, cinema. Nonostante il vizio di eclettismo enciclopedico
che i dirigenti comunisti rimproverarono al «Politecnico», non si può
sottovalutare la benefica boccata d’aria di una cultura antiaccademica che
spaziava dall’avanguardia russa al surrealismo francese, dall’espressionismo
tedesco alla narrativa americana, senza dimenticare i riferimenti a filosofie
“eterodosse” come l’esistenzialismo. Cruciale fu il rapporto con Sartre, grazie
al quale si realizzò uno “scambio” che sarebbe stato impensabile nel
provincialismo del ventennio precedente (nonostante certe aperture
dell’industria editoriale): il manifesto della rivista sartriana «Les Temps
Modernes» fu pubblicato dal «Politecnico» mentre, contestualmente, il giornale
francese riportava l’articolo di fondo di Vittorini. L’engagement di Sartre e Simone de Bouvoir era un modello di impegno per
l’intellettuale militante italiano.
La
disputa con Togliatti che contribuì al declino della rivista e alla sua
chiusura nel dicembre ’47 (dopo la trasformazione in periodico e il cambio di
formato) fu dovuta in parte al tradizionalismo retro della cultura letteraria prevalente ai vertici del Pci; a un
“contenutismo” di tipo sovietico (diciamo per semplificare) sospettoso nei
confronti degli sperimentalismi formali novecenteschi. D’altra parte Togliatti
aveva ragione nel rivendicare lo spessore culturale della politica in quanto
tale, che egli intendeva alla maniera di un Gramsci peraltro ancora
sconosciuto; e invero l’operazione intellettuale più alta compiuta dal
segretario del Pci fu proprio l’edizione degli scritti gramsciani a partire dal
’47, presso la stessa Einaudi («Il Politecnico» anticipò alcune lettere dal
carcere). Vittorini negava di volere la supremazia della cultura sulla
politica, ma ne sosteneva l’autonomia statutaria e il pluralismo di ricerca nel
proprio ambito specifico. «Il diritto di parlare – scriveva inoltre rispondendo
a Togliatti – non deriva agli uomini dal fatto di “possedere la verità”. Deriva
piuttosto dal fatto che “si cerca la verità”». Un concetto che non sarebbe
dispiaciuto al Gramsci dei Quaderni. Cultura
militante, dunque, come parte intrinseca e non separata del movimento storico dei
lavoratori e dei progressisti, ma cultura che si dà le proprie regole e i
propri percorsi. Bisognerà attendere il ‘68 per integrare questa formulazione –
già ricca di stimoli nel ’45-’47 – con la demistificazione della presunta
neutralità del sapere, con la critica della propria funzione sociale da parte
degli intellettuali.
Pasquale Martino
«La
Gazzetta del Mezzogiorno», 8 ottobre 2015