giovedì 8 ottobre 2015

"Il Politecnico" di Vittorini

Quel soffio d'aria nuova nell’Italia liberata
70 anni del primo numero della rivista di cultura 


70 anni dalla Liberazione. Un momento storico terribile e generoso, in cui l’Italia uscita dalle macerie ripensò se stessa. È in questa chiave che andrebbe letta la vicenda emblematica del «Politecnico», il settimanale fondato da Elio Vittorini il cui n° 1 apparve il 29 settembre ’45. La rivista – spesso ricordata (ingiustamente) solo per la polemica con Togliatti – ebbe poco più di due anni di vita, meteora in un’epoca tumultuosa: nascita della repubblica, elezione della Costituente, infine la cacciata delle sinistre dal governo. Il 1945-46 fu un’età di riviste culturali, come il primo Novecento. A «Rinascita» uscita nel ’44 si affiancarono – per citare solo le principali – un’altra rivista di orientamento comunista, «Società», e tre di area azionista, «La Nuova Europa» di Salvatorelli, «Belfagor» di Luigi Russo e «Il Ponte» di Piero Calamandrei (le ultime due, di lunga e gloriosa vita). Ma la più dirompente fu «Il Politecnico».
Vittorini era uno degli intellettuali comunisti di maggiore rilievo: già noto come romanziere, traduttore, consulente editoriale, non aveva una formazione marxista – lo dichiarò lui stesso – e proveniva dal contesto della fronda fascista in cui s’erano formati parecchi giovani oppositori; nel ’45 pubblicò Uomini e no, il primo romanzo sulla Resistenza, composto “in tempo reale” alla fine del ‘44. Il nuovo settimanale da lui diretto, edito a Torino da Einaudi ma redatto a Milano, riprendeva il nome della rivista di Carlo Cattaneo, per affermare l’idea di una cultura integrale, umanistica e scientifica, legata alla società e alla vita reale. Aveva il formato di un quotidiano, con doppia colorazione, nera e rossa, grafica assai innovativa curata da Albe Steiner, largo uso della fotografia e, talora, del fumetto. La presentazione poneva in modo radicale il tema dalla débacle della cultura borghese europea di fronte alla tragedia della guerra nazista e alla distruzione di tante vite: «non vi è delitto commesso dal fascismo – scriveva il direttore – che questa cultura non avesse insegnato ad esecrare già da tempo»; eppure non lo aveva impedito. La «nuova cultura» doveva essere insieme ricerca, sperimentazione e divulgazione, nonché indagine sociale ed essa stessa forma di lotta. «Il Politecnico», che arrivò a raggiungere settantamila lettori, pubblicava ampie inchieste sulla Fiat e sulla Montecatini e corposi servizi sul Meridione – notevoli quelli sul bracciantato pugliese (curati per lo più dal fratello di Elio, Ugo Vittorini, che abitò in Puglia) e sulla Basilicata (affidati al lucano Alberto Iacoviello, futuro corrispondente de «l’Unità» e di «Repubblica»). Temi ricorrenti erano la critica del Vaticano e dei monopoli industriali – due punti su cui il settimanale scavalcava “a sinistra” la prudenza del Pci – e la battaglia per la riforma della scuola: qui vennero i contributi di Concetto Marchesi, della pedagogista Dina Bertoni Jovine e della segretaria di redazione, Luisa Succi (che scrisse anche sulla emancipazione femminile). Ai servizi internazionali (Egitto, Palestina, Indonesia, Argentina, India) si aggiungevano quelli sulle conquiste sociali in Urss ma anche in Usa (il sogno della grande alleanza antinazista non era ancora crollato). La parte del leone era senza dubbio riservata alle arti: letteratura, pittura, scultura, architettura, teatro, cinema. Nonostante il vizio di eclettismo enciclopedico che i dirigenti comunisti rimproverarono al «Politecnico», non si può sottovalutare la benefica boccata d’aria di una cultura antiaccademica che spaziava dall’avanguardia russa al surrealismo francese, dall’espressionismo tedesco alla narrativa americana, senza dimenticare i riferimenti a filosofie “eterodosse” come l’esistenzialismo. Cruciale fu il rapporto con Sartre, grazie al quale si realizzò uno “scambio” che sarebbe stato impensabile nel provincialismo del ventennio precedente (nonostante certe aperture dell’industria editoriale): il manifesto della rivista sartriana «Les Temps Modernes» fu pubblicato dal «Politecnico» mentre, contestualmente, il giornale francese riportava l’articolo di fondo di Vittorini. L’engagement di Sartre e Simone de Bouvoir era un modello di impegno per l’intellettuale militante italiano.
La disputa con Togliatti che contribuì al declino della rivista e alla sua chiusura nel dicembre ’47 (dopo la trasformazione in periodico e il cambio di formato) fu dovuta in parte al tradizionalismo retro della cultura letteraria prevalente ai vertici del Pci; a un “contenutismo” di tipo sovietico (diciamo per semplificare) sospettoso nei confronti degli sperimentalismi formali novecenteschi. D’altra parte Togliatti aveva ragione nel rivendicare lo spessore culturale della politica in quanto tale, che egli intendeva alla maniera di un Gramsci peraltro ancora sconosciuto; e invero l’operazione intellettuale più alta compiuta dal segretario del Pci fu proprio l’edizione degli scritti gramsciani a partire dal ’47, presso la stessa Einaudi («Il Politecnico» anticipò alcune lettere dal carcere). Vittorini negava di volere la supremazia della cultura sulla politica, ma ne sosteneva l’autonomia statutaria e il pluralismo di ricerca nel proprio ambito specifico. «Il diritto di parlare – scriveva inoltre rispondendo a Togliatti – non deriva agli uomini dal fatto di “possedere la verità”. Deriva piuttosto dal fatto che “si cerca la verità”». Un concetto che non sarebbe dispiaciuto al Gramsci dei Quaderni. Cultura militante, dunque, come parte intrinseca e non separata del movimento storico dei lavoratori e dei progressisti, ma cultura che si dà le proprie regole e i propri percorsi. Bisognerà attendere il ‘68 per integrare questa formulazione – già ricca di stimoli nel ’45-’47 – con la demistificazione della presunta neutralità del sapere, con la critica della propria funzione sociale da parte degli intellettuali.    
            
Pasquale Martino   
«La Gazzetta del Mezzogiorno», 8 ottobre 2015