La
nascita del principato secondo Canfora
Chi,
accingendosi a leggere il più recente lavoro di Luciano Canfora, Augusto. Figlio di Dio (Laterza, 2015,
pp. 567, euro 24) si attendesse quasi la ripresa e il completamento di uno
studio sulla «rivoluzione romana» avviato sedici anni fa con il fortunato Giulio Cesare. Il dittatore democratico
(Laterza, 1999), rischierebbe di restare deluso, o quanto meno spiazzato. E non
perché la nuova ponderosa monografia sia estranea all’indagine che l’illustre
filologo barese va conducendo sulle trasformazioni storiche del potere
imperiale romano; nella quale indagine, anzi, essa si colloca come un esito
significativo. Ma perché, mentre il libro sul “padre”, il Divo Giulio, si
configurava come un vero e proprio saggio biografico di impianto narrativo, al
contrario il libro sul “figlio”, Cesare Ottaviano Augusto, segue uno schema
diverso e, in qualche modo, più congeniale al metodo del suo Autore: quello della
«storia della tradizione». Esso è infatti una ricerca e una discussione di
straordinaria perizia sulle fonti e sulle stratificazioni di notizie in esse
depositate. Tanto da apparire, da questo punto di vista, quale cospicuo esemplare
in una ideale collana di studi che prenda le mosse dal classico Storia della tradizione e critica del testo
di Giorgio Pasquali (1934), maestro di Carlo Ferdinando Russo e, per suo
tramite, del Nostro.
Per
oltre metà del volume di cui stiamo parlando il vero protagonista non è nemmeno
Augusto, ma è un altro: lo storico greco del II secolo d.C. Appiano di
Alessandria. Scrittore poco noto al largo pubblico in Italia: non esistono
edizioni economiche della sua opera, e la traduzione italiana più recente è
quella pubblicata nel 2001 dalla costosa Utet, praticamente introvabile se non
in biblioteca. Appiano è l’autore dei cinque libri delle Guerre civili che, nell’ambito di un progetto generale di storia
romana da lui realizzato ma pervenutoci incompleto, costituiscono la più vasta
trattazione storiografica antica su cento anni di conflitti intestini a partire
dal tribunato dei Gracchi. Ben tre dei cinque libri appianei sono riservati
agli eventi successivi alla morte di Cesare, svolgendo le vicende che
condussero alla presa del potere da parte di Augusto. Su quali fonti si è
documentato lo storico alessandrino, tanto da disporre, due secoli dopo i fatti,
di informazioni di prima mano che non si trovano in altre ricostruzioni
antiche? Appiano ha avuto «sul suo scrittoio», per dirla con Canfora, due testi
fondamentali che sono poi andati perduti, ma di cui la ricerca filologica ha
trovato le tracce. Il primo era la storia delle guerre civili composta da
Seneca il Vecchio, padre del filosofo, secondo un’ottica repubblicana e anti-augustea:
donde, in Appiano, la rappresentazione nient’affatto apologetica della condotta
politica del Divi filius. L’altro
testo erano i Commentarii
autobiografici che lo stesso Augusto redasse seguendo il modello di Cesare che
aveva scritto i resoconti sulla guerra gallica e sulla guerra civile. Solo che le
memorie del padre adottivo si sono salvate, quelle del figlio si sono perse
(non vanno confuse perciò con le Res
Gestae, la sintesi tarda che Augusto affidò a solide epigrafi e che
pertanto si è conservata fino a noi). L’autobiografia augustea era ovviamente
difensiva e giustificatoria, ma conteneva spunti e dettagli che solo Augusto
poteva conoscere, e che ricorrono in Appiano.
Canfora
ricostruisce le fonti appianee e risale alle motivazioni che erano alla base di
quegli scritti. Cosicché la conquista del potere da parte di Augusto è
restituita al lettore in una dinamica complessa e contraddittoria, cioè nella
dimensione dei fatti storici in divenire, il cui esito non è scontato, dalla “marcia
su Roma” di Ottaviano alla guerra contro i «cesaricidi», al decennio turbolento
del triumvirato, fino alla battaglia di Azio. Una guerra civile che diventa man
mano anche una guerra della memoria e della interpretazione storica. Per cui
Augusto invade il campo della cultura e della storiografia, tenta di
condizionare gli storici, manipola gli intellettuali, e dispiega fra l’altro
un’operazione strategica come la pubblicazione postuma (parziale e selettiva)
degli archivi epistolari di Cicerone. Dai quali si evince che il grande oratore
– la vittima più eminente delle proscrizioni triumvirali, che Ottaviano non
volle o non poté salvare – aveva puntato le sue ultime carte politiche proprio
sul giovane figlio adottivo di Cesare.
Uomo
di notevolissima intelligenza, freddo calcolatore, cinico, capace di manovrare destramente
fra mutevoli alleanze e inimicizie, l’Augusto raccontato da Canfora attraversa un’epoca
di ferro e fuoco mantenendosi fedele soltanto a due principi ispiratori. Il
primo: vendicare suo “padre”, punirne gli assassini; essere fino in fondo
quello che la fortunata adozione gli ha permesso di essere: l’erede di un uomo
che è diventato dio, il che è un vantaggio propagandistico non da poco, specie
per tenere uniti a sé i soldati, vero fondamento del nuovo potere. La seconda
ispirazione: non fare come suo “padre”; non atteggiarsi a monarca urtando la
tradizione e la sensibilità romane, ma viceversa presentarsi come il
restauratore della repubblica. Essendo, in questo, l’erede invece di Cicerone
(l’uomo di cui aveva causato o permesso la morte); proprio Cicerone aveva
teorizzato il principe in re publica,
il moderatore che alla stregua di Pericle o di Scipione Emiliano salvaguardasse
le istituzioni con la propria autorevolezza. È il modello che Augusto fece suo,
ma con un “dettaglio” differente: in apparenza un moderatore, in realtà un
monarca. Di qui un notevole paradosso storico: il castello propagandistico di
Augusto non resse a lungo, non nell’ambito della élite intellettuale (nella
generazione che precede Appiano, Tacito lo smontava pezzo per pezzo); il
sistema politico da lui istituito, il principato, invece, continuava a reggere
pur tra sussulti e crisi interne, e aveva dimostrato di non avere alternative
pratiche nell’amministrazione di una enorme compagine come l’impero romano.
Augusto aveva cessato di essere un modello virtuoso se mai lo era stato; ma la
monarchia da lui fondata era la forma di governo che anche Appiano riconosceva
come necessaria e funzionante.
Pasquale Martino
Questa
recensione è stata pubblicata il 17 maggio 2015 su «Il
Quotidiano Italiano»:
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