lunedì 18 maggio 2015

Il paradosso di Augusto


La nascita del principato secondo Canfora



Chi, accingendosi a leggere il più recente lavoro di Luciano Canfora, Augusto. Figlio di Dio (Laterza, 2015, pp. 567, euro 24) si attendesse quasi la ripresa e il completamento di uno studio sulla «rivoluzione romana» avviato sedici anni fa con il fortunato Giulio Cesare. Il dittatore democratico (Laterza, 1999), rischierebbe di restare deluso, o quanto meno spiazzato. E non perché la nuova ponderosa monografia sia estranea all’indagine che l’illustre filologo barese va conducendo sulle trasformazioni storiche del potere imperiale romano; nella quale indagine, anzi, essa si colloca come un esito significativo. Ma perché, mentre il libro sul “padre”, il Divo Giulio, si configurava come un vero e proprio saggio biografico di impianto narrativo, al contrario il libro sul “figlio”, Cesare Ottaviano Augusto, segue uno schema diverso e, in qualche modo, più congeniale al metodo del suo Autore: quello della «storia della tradizione». Esso è infatti una ricerca e una discussione di straordinaria perizia sulle fonti e sulle stratificazioni di notizie in esse depositate. Tanto da apparire, da questo punto di vista, quale cospicuo esemplare in una ideale collana di studi che prenda le mosse dal classico Storia della tradizione e critica del testo di Giorgio Pasquali (1934), maestro di Carlo Ferdinando Russo e, per suo tramite, del Nostro.
Per oltre metà del volume di cui stiamo parlando il vero protagonista non è nemmeno Augusto, ma è un altro: lo storico greco del II secolo d.C. Appiano di Alessandria. Scrittore poco noto al largo pubblico in Italia: non esistono edizioni economiche della sua opera, e la traduzione italiana più recente è quella pubblicata nel 2001 dalla costosa Utet, praticamente introvabile se non in biblioteca. Appiano è l’autore dei cinque libri delle Guerre civili che, nell’ambito di un progetto generale di storia romana da lui realizzato ma pervenutoci incompleto, costituiscono la più vasta trattazione storiografica antica su cento anni di conflitti intestini a partire dal tribunato dei Gracchi. Ben tre dei cinque libri appianei sono riservati agli eventi successivi alla morte di Cesare, svolgendo le vicende che condussero alla presa del potere da parte di Augusto. Su quali fonti si è documentato lo storico alessandrino, tanto da disporre, due secoli dopo i fatti, di informazioni di prima mano che non si trovano in altre ricostruzioni antiche? Appiano ha avuto «sul suo scrittoio», per dirla con Canfora, due testi fondamentali che sono poi andati perduti, ma di cui la ricerca filologica ha trovato le tracce. Il primo era la storia delle guerre civili composta da Seneca il Vecchio, padre del filosofo, secondo un’ottica repubblicana e anti-augustea: donde, in Appiano, la rappresentazione nient’affatto apologetica della condotta politica del Divi filius. L’altro testo erano i Commentarii autobiografici che lo stesso Augusto redasse seguendo il modello di Cesare che aveva scritto i resoconti sulla guerra gallica e sulla guerra civile. Solo che le memorie del padre adottivo si sono salvate, quelle del figlio si sono perse (non vanno confuse perciò con le Res Gestae, la sintesi tarda che Augusto affidò a solide epigrafi e che pertanto si è conservata fino a noi). L’autobiografia augustea era ovviamente difensiva e giustificatoria, ma conteneva spunti e dettagli che solo Augusto poteva conoscere, e che ricorrono in Appiano.

Canfora ricostruisce le fonti appianee e risale alle motivazioni che erano alla base di quegli scritti. Cosicché la conquista del potere da parte di Augusto è restituita al lettore in una dinamica complessa e contraddittoria, cioè nella dimensione dei fatti storici in divenire, il cui esito non è scontato, dalla “marcia su Roma” di Ottaviano alla guerra contro i «cesaricidi», al decennio turbolento del triumvirato, fino alla battaglia di Azio. Una guerra civile che diventa man mano anche una guerra della memoria e della interpretazione storica. Per cui Augusto invade il campo della cultura e della storiografia, tenta di condizionare gli storici, manipola gli intellettuali, e dispiega fra l’altro un’operazione strategica come la pubblicazione postuma (parziale e selettiva) degli archivi epistolari di Cicerone. Dai quali si evince che il grande oratore – la vittima più eminente delle proscrizioni triumvirali, che Ottaviano non volle o non poté salvare – aveva puntato le sue ultime carte politiche proprio sul giovane figlio adottivo di Cesare.
Uomo di notevolissima intelligenza, freddo calcolatore, cinico, capace di manovrare destramente fra mutevoli alleanze e inimicizie, l’Augusto raccontato da Canfora attraversa un’epoca di ferro e fuoco mantenendosi fedele soltanto a due principi ispiratori. Il primo: vendicare suo “padre”, punirne gli assassini; essere fino in fondo quello che la fortunata adozione gli ha permesso di essere: l’erede di un uomo che è diventato dio, il che è un vantaggio propagandistico non da poco, specie per tenere uniti a sé i soldati, vero fondamento del nuovo potere. La seconda ispirazione: non fare come suo “padre”; non atteggiarsi a monarca urtando la tradizione e la sensibilità romane, ma viceversa presentarsi come il restauratore della repubblica. Essendo, in questo, l’erede invece di Cicerone (l’uomo di cui aveva causato o permesso la morte); proprio Cicerone aveva teorizzato il principe in re publica, il moderatore che alla stregua di Pericle o di Scipione Emiliano salvaguardasse le istituzioni con la propria autorevolezza. È il modello che Augusto fece suo, ma con un “dettaglio” differente: in apparenza un moderatore, in realtà un monarca. Di qui un notevole paradosso storico: il castello propagandistico di Augusto non resse a lungo, non nell’ambito della élite intellettuale (nella generazione che precede Appiano, Tacito lo smontava pezzo per pezzo); il sistema politico da lui istituito, il principato, invece, continuava a reggere pur tra sussulti e crisi interne, e aveva dimostrato di non avere alternative pratiche nell’amministrazione di una enorme compagine come l’impero romano. Augusto aveva cessato di essere un modello virtuoso se mai lo era stato; ma la monarchia da lui fondata era la forma di governo che anche Appiano riconosceva come necessaria e funzionante.   

Pasquale Martino     


Questa recensione è stata pubblicata il 17 maggio 2015 su «Il Quotidiano Italiano»:



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