Sangue africano per liberare l'Italia
La banda di Roti (Macerata), composta da italiani, iugoslavi, etiopi, somali |
L’Italia
che celebra il 70° della vittoria contro il nazifascismo è anche il paese in
cui un alto rappresentante dello Stato ha potuto paragonare una donna
italo-congolese a un orango, senza dimettersi subito dopo. Non è certo rituale ricordare
che sul suolo d’Italia, per liberarla, è stato versato sangue africano; e non
solo di militari alleati, ma anche di civili: perché al fianco dei partigiani bianchi,
contro una tirannide che fra i suoi orrori annoverava il razzismo, hanno
combattuto i partigiani neri. Il che è avvenuto in generale nella Resistenza
europea. Si prenda la storia di Addi Bâ: il «terrorista nero», così chiamato
dai tedeschi. Partigiano franco-guineano,
viene arrestato e fucilato nel 1943, a 27 anni. È stato insignito della medaglia
della Resistenza francese alla memoria.
La repubblica italiana ha conferito la medaglia
d’argento alla memoria ad Alessandro Sinigaglia. Figlio di un italiano ebreo e di una
donna afroamericana trasferitasi in Italia al seguito della famiglia
statunitense per cui lavorava, Sinigaglia era un operaio di Fiesole iscritto al
partito comunista e perciò obbligato a riparare in Francia durante il fascismo («negro
ebreo comunista», dunque – come recita il titolo di un libro di M. Valeri che
ne racconta la vita – quasi a sfidare tutti in una volta gli stereotipi dell’intolleranza).
Volontario antifranchista in Spagna, fu arrestato in Francia, consegnato all’Italia
e mandato al confino. Dopo il 25 luglio ‘43 rientrò a Firenze e, all’indomani
dell’armistizio, fu tra gli organizzatori dei Gap che iniziarono la lotta
contro i nazifascisti nel capoluogo toscano. Cadde nel 1944, a 42 anni, in
un’imboscata tesagli dalla Banda Carità.
Avventurosa
e straordinaria è la vicenda dei «Cinquanta d’Oltremare»: un folto gruppo di etiopi,
eritrei e somali che gli italiani trasferirono a Napoli nel maggio 1940 per impiegarli
come figuranti di ambientazioni folcloristiche nella Mostra delle Terre
d’Oltremare. L’esposizione, inaugurata meno di un mese prima dell’entrata in
guerra dell’Italia, fu subito interrotta per il pericolo di bombardamenti. Gli
africani – ascari, artigiani, donne e bambini – vennero alloggiati da qualche
parte; era impensabile rimandarli a casa mentre la guerra si scatenava anche
sul mare. Molti di loro furono poi spostati nelle Marche, dove nel ’43 entrarono
nella Resistenza. Grazie all’afflusso di ex prigionieri iugoslavi, russi,
inglesi, unitisi agli italiani, nacque una sorta di brigata internazionale, di
cui fecero parte la banda di Roti (Macerata) e il «battaglione Mario», comandato
dall’istriano Mario Depangher. Fu così che i figli dei popoli colonizzati del
Corno d’Africa impugnarono le armi accanto ai loro compagni per liberare i
colonizzatori e se stessi. Fra i partigiani d’Oltremare si distinguono i somali
al comando del principe Aden. La figura di cui si ha qualche notizia in più è
quella dell’etiope Carlo Abbamagal; Carlo è verosimilmente un appellativo
acquisito in Italia, mentre il nome Abba Magal ricorre nella tradizione
nobiliare d’Etiopia. Il giovane è al fianco del comandante Mario nel novembre
1943, quando il suo gruppo si scontra con i tedeschi e lui stesso rimane
ucciso. Solo di recente si è incominciato a ricostruire la storia dei Cinquanta
d’Oltremare per merito di giovani studiosi. Nel 2014 il comune di San Severino
Marche ha dedicato un’epigrafe a Carlo Abbamagal.
Giorgio Marincola terzo da destra con altri patrigiani |
Più
nota è la vicenda di Giorgio Marincola, medaglia d’oro alla memoria. Nacque nel
1923 nei pressi di Mogadiscio da un sottufficiale italiano, Giuseppe, e dalla
somala Aschirò Hassan. Il padre riconobbe Giorgio e la sorella minore Isabella,
portandoli in Italia. Il ragazzo frequenta un liceo romano, dove matura idee
antifasciste alla scuola del docente Pilo Albertelli, futuro martire delle
Fosse Ardeatine. Si iscrive quindi alla facoltà di medicina; nel 1943 partecipa
alla difesa di Roma ed entra nelle formazioni partigiane del partito d’azione. La
capitale è liberata nel giugno ‘44, ma Giorgio non disarma: accetta un
rischioso incarico per conto del servizio segreto militare inglese e, dopo un
corso di addestramento in Puglia, si fa paracadutare in Piemonte per raggiungere
i partigiani. È arrestato e costretto a parlare ai microfoni di una radio
nazifascista; invece di leggere il testo propagandistico impostogli, improvvisa
con incredibile coraggio un discorso antinazista: «La patria – dice – non è identificabile con dittature simili
a quella fascista. Patria significa libertà e giustizia per i popoli del mondo».
Viene
interrotto e selvaggiamente pestato. I tedeschi lo deportano in un lager presso
Bolzano, ma non fanno in tempo a spedirlo in Germania. Si arriva al 25 aprile, e
cinque giorni dopo il giovane italo-somalo è liberato. In val di Fiemme però la
guerra non è ancora finita: Marincola si unisce a un gruppo partigiano che
sorveglia la ritirata delle retroguardie tedesche verso l’Austria. Il 4 maggio
un reparto di SS compie l’ultima strage nazista in Italia, uccidendo 27 persone
fra Stramentizzo e Molina di Fiemme: fra queste, il ventiduenne Giorgio
Marincola e altri undici patrioti.
A
tener viva la memoria del fratello ha contribuito Isabella Marincola, a sua
volta protagonista di una vita fuori dell’ordinario. Modella e attrice nel
dopoguerra (compare in Riso amaro accanto
a Silvana Mangano), va poi in Somalia dove si ricongiunge alla madre Aschirò. Allo
scoppio della guerra civile somala torna a vivere in Italia col figlio Antar
Mohamed fino al 2010, anno della morte di Isabella. Antar e sua madre hanno
collaborato alla realizzazione del libro Razza
partigiana, di C. Costa e L. Tedonio (2008), che ricostruisce la figura di
Giorgio, e alla gestazione di Timira,
«romanzo meticcio» di Wu Ming 2 (2012), basato sulla vita di Isabella.
Pasquale Martino
«La
Gazzetta del Mezzogiorno» 23 aprile 2015