Gli intellettuali di fronte al fascismo
"Il Mondo" con la risposta di Croce al manifesto di Gentile |
Il
1925, novanta anni fa: un anno cruciale del regime fascista si apre col
discorso del 3 gennaio, in cui Mussolini assumendo la responsabilità politica e
morale del delitto Matteotti sancisce la sconfitta dell’Aventino, e si conclude
con la prima delle leggi eccezionali (24 dicembre) che attribuisce al duce un
potere inaudito. Fu anche l’anno di un tentativo ambizioso del fascismo di
chiamare a raccolta gli intellettuali attorno a un manifesto scritto da
Giovanni Gentile, cui si oppose il manifesto antifascista redatto da Benedetto
Croce: i due promotori della filosofia idealistica italiana, amici e a lungo uniti
nella rivista «La Critica» edita da Laterza, si schieravano da quel momento su
fronti avversi.
La
battaglia dei due manifesti ebbe inizio con il congresso degli «intellettuali
aderenti al fascismo» (Bologna, 29-30 marzo); la stampa comunicò i nomi di 250 presenti,
che poi figurarono anche quali firmatari del manifesto scaturito dall’incontro
e apparso il 21 aprile. Fra questi c’erano le due personalità che, con Gentile,
rappresenteranno gli intellettuali di maggiore statura del fascismo, il
giurista Alfredo Rocco e lo storico Gioacchino Volpe; vi comparivano inoltre Marinetti
e Soffici – lo stato maggiore del Futurismo – , scrittori come Salvatore Di
Giacomo, Malaparte, Ojetti, Panzini, il compositore Ildebrando Pizzetti, Margherita
Sarfatti biografa del duce, Luigi Pareti storico di Roma antica e Nicola Pende
futuro teorico della razza. Pirandello mandò una lettera di adesione. Firmava
anche lo storico dell’arte Lionello Venturi, che in seguito diventò
antifascista e rifiutò di prestare giuramento nel 1931.
Fu
Giovanni Amendola, uno dei capi dell’Aventino, a sollecitare Croce perché
scrivesse un “contromanifesto”, che apparve in effetti il 1° maggio sul «Mondo»
col titolo di «risposta» al manifesto fascista. Tra i primi firmatari oltre a
Croce e Amendola figuravano Emilio Cecchi, Luigi Einaudi, Giustino Fortunato, Rodolfo
Mondolfo, De Ruggiero, Salvatorelli e Matilde Serao. Nelle settimane successive
si aggiunsero numerose adesioni per un totale di circa 260, fra cui quelle di Sibilla
Aleramo, Montale, Marino Moretti, e di una nutritissima schiera di docenti di
tutte le università italiane (la piccola università di Bari, nata da poco, fu
rappresentata solo dal botanico abruzzese Vincenzo Rivera). Spicca, in
compagnia di molti altri, quasi tutta l’esigua pattuglia di professori che non
giureranno fedeltà al regime.
Nel
manifesto gentiliano colpisce l’assenza di riferimenti a un ruolo specifico
degli intellettuali e dell’attività culturale. Rispondente anche a uno scontro
interno al PNF contro l’ala radicale che affermava l’inutilità della cultura,
il manifesto non si spinge oltre l’identificazione militante dell’intellettuale
con il fascismo, con il suo «carattere religioso e perciò intransigente». Nato
come «fede energica, violenta, non disposta a nulla rispettare che opponesse
alla vita, alla grandezza della Patria», il fascismo è «subordinazione di ciò
che è particolare ed inferiore a ciò che è universale ed immortale»; esso si
esprime nell’azione, «non distingue la teoria dalla pratica, il dire dal fare».
Erede delle minoranze del Risorgimento, la minoranza squadrista ha combattuto
per inverare un nuovo ideale di Stato corporativo che rispecchia lo Stato etico
hegeliano.
Al
contrario, il documento scritto da Croce era incentrato su una ribadita
distinzione fra politica e cultura e sulla responsabilità degli intellettuali
innanzitutto verso il libero pensiero. «Varcare
questi limiti dell'ufficio a loro assegnato – si leggeva nel manifesto – , contaminare
politica e letteratura, politica e scienza è un errore, che, quando poi si
faccia, come in questo caso, per patrocinare deplorevoli violenze e prepotenze
e la soppressione della libertà di stampa, non può dirsi nemmeno un errore
generoso». La separazione crociana appare invero “ottocentesca”: la lotta
antifascista richiederà nel ventennio seguente ben altra capacità degli
intellettuali di spendersi in un impegno militante, nel cercare un legame
politico con la popolazione; lo stesso Croce diventerà nel 1944 guida politica
e non solo morale dell’antifascismo, aprendo a Bari il congresso dei CLN. E
tuttavia si deve rendere merito al rigore con cui il manifesto respinge il fascismo
– duramente, per la prima volta da parte liberale, dopo le illusioni dialogiche
persistenti fino a poco tempo prima – e all’asprezza con cui i sottoscrittori
del testo gentiliano vengono sferzati: «nobilitare col nome di religione il
sospetto e l'animosità sparsi dappertutto […] è cosa che suona, a dir vero,
come un'assai lugubre facezia».
La
storia successiva provò che una ferma dichiarazione di scrittori e docenti non
sarebbe bastata a intralciare il regime. Mostrò altresì che una cultura integralmente
fascista non nacque mai. La stessa azione di Gentile come organizzatore
culturale – lontana da imposizioni totalitarie nei contenuti disciplinari – sta
a dimostrarlo. L’alta cultura continuò a vivere per conto suo, sebbene umiliata
da esteriori atti di sudditanza. Una maggiore interazione si sviluppò al
livello della cultura di massa, nel cinema, nella letteratura popolare, nei littoriali,
nel giornalismo, dove la ripetitività sloganistica sembrò dare corpo a un
modello di intellettuale-funzionario. La cultura alternativa al fascismo invece
si esprimeva al livello più alto, negli anni della dittatura, in un’opera che –
per citare Norberto Bobbio – «fu scritta non in una delle dotte e gloriose
università ma in una prigione di Stato», in terra di Bari, a Turi.
Pasquale Martino
«La
Gazzetta del Mezzogiorno», 25 marzo 2015