La sirena delle 10, una lezione di libertà
La Resistenza, il '68, il cinema
È
attuale l’antifascismo? La domanda non suonerà impropria, ora che il fondamento
antifascista – variamente declinato nel corso della storia repubblicana –
sembra sfumare dal dibattito pubblico. Vero è che il sentimento civile degli
italiani ci ha abituati anche a sorprese positive, a sussulti di consapevolezza
di fronte a fatti simbolici e drammatici. Perciò è utile che dell’antifascismo
si faccia la storia, in questo settantesimo della Costituzione; che si racconti
il percorso di accoglimento e sistemazione dell’eredità antifascista e
partigiana nella cultura delle generazioni che sono venute dopo, e si consegni
questa riflessione al confronto con i giovani.
Capita
dunque a proposito la commemorazione del regista Francesco Laudadio
(1950-2005), che si terrà il 6 aprile a Bari, nel tredicesimo anniversario
della morte prematura: un ricordo che prende spunto dalla presentazione di un
libro postumo – rinvenuto fra i molti manoscritti inediti lasciati dall’autore
e dato alle stampe nel 2016 in edizione fuori commercio – che ha per titolo La sirena delle 10 e, come spiega il
sottotitolo, racconta l’organizzazione degli scioperi operai del marzo 1943 a
Torino, il grande sommovimento che accelerò la caduta del fascismo e anticipò
la Resistenza. Il volume è arricchito da una prefazione del leader sindacale
Maurizio Landini, da una introduzione dello storico Alexander Höbel e da una
nota finale di Piero Di Siena, che ha condiviso l’impegno politico giovanile di
Laudadio. Il cineasta barese è stato fino al 1975 un protagonista del movimento
studentesco e della sinistra nella città natale. E qui sia consentita una nota
personale: questa è per me l’attesa occasione del riavvicinamento alla
personalità fuori del comune di Francesco, con cui a quel tempo ho avuto un
rapporto di cooperazione, discussione e anche scontro.
Studente
del liceo Orazio Flacco alla fine degli anni ’60, Laudadio vi aggrega un attivo
nucleo della Federazione giovanile comunista, dando subito prova di energia e
intelligenza vivacissime, e dialogando con altre componenti del mondo liceale
con cui dà vita al primo organismo rappresentativo di un istituto scolastico a
Bari. Nel ’68, La Fgci di Laudadio guida l’Orazio Flacco ad affiancare – prima
scuola barese – gli universitari nella lotta per il “potere studentesco”. Il collettivo
di ragazzi e ragazze si prodiga pure nelle vertenze operaie, dall’occupazione
delle Fucine Meridionali agli scioperi degli allievi apprendisti del Ciapi. Critico
verso il Pci, che diffida della contestazione giovanile, il gruppo abbandona il
partito nel ’69 per intraprendere un’azione di movimento il cui tema di fondo è
proprio l’antifascismo, l’esempio dei partigiani, il rilancio di una “nuova
Resistenza”. È infatti il tragico momento delle trame nere, di piazza Fontana, di
un altro squadrismo che a Bari ha punti di forza: un neofascismo che inaugura
la violenza col pretesto di combattere l’infiltrazione “rossa”. Non l’estrema
sinistra, ma la «Gazzetta del Mezzogiorno» racconta l’aggressione gratuita di
squadre fasciste armate di mazze e caschi contro un pacifico corteo di migliaia
di studenti medi, il 10 dicembre 1970. Episodio cruciale e salto di qualità: i
giovani del movimento si organizzano unitariamente nel Caa, Comitato antimperialista
antifascista, di cui Francesco assume la leadership con suo fratello Felice
(che ha rievocato questa esperienza in un romanzo autobiografico del 2005, Il colore del sangue). L’antifascismo è all’epoca
l'altra faccia dell’antimperialismo, che si riconosce nella lotta del Vietnam e
dei popoli del Terzo Mondo contro gli Usa, e non accetta più la guida dell’Urss
ma si ispira alla Cina di Mao. È d’obbligo il richiamo alla Resistenza: il
giornale del Caa è «Lotta partigiana», la firma del direttore responsabile è
quella prestigiosa di Tommaso Fiore, leader dell’antifascismo intellettuale in
Puglia durante il Ventennio (nel ‘71 sarà ancora una volta processato, per
diffamazione, e assolto). Nessun ammiccamento verso chi allora (in altre città)
sragiona su lotta armata e clandestinità.
Francesco Laudadio (a destra) con Billy Wilder |
Il
’72 è un anno di svolta: la spinta del ’68 sembra interrompersi, ed è sempre
Francesco tra i promotori dell’ingresso (o rientro) di gran parte del Caa nel
Pci, per fare fronte comune contro la sterzata a destra del governo Andreotti. Seguono
tre anni intensi di esperienza come dirigente comunista in Puglia, a contatto
con le realtà bracciantili; poi la scelta di discontinuità, il trasferimento a
Roma per assecondare la passione del cinema. Ma proprio il ’75 è l’anno in cui Laudadio
si dedica alla scrittura, realizzando la bozza di trattamento cinematografico (molto
simile a un romanzo) incentrata sugli scioperi del ’43. La riflessione sulla
Resistenza è ancora il suo rovello; ma c’è in questo racconto anche molto ’68:
gli studenti che si avvicinano agli operai per ribellarsi al regime; gli operai
torinesi che si mescolano agli immigrati meridionali; la partecipazione delle
ragazze alla lotta. C’è la lezione unitaria della Resistenza, soprattutto unità
dal basso: alla paziente preparazione dei lavoratori comunisti si affianca man
mano l’apporto dei socialisti, dei cattolici, di chi fino a poco fa è stato
fascista in buona fede. Prima di
sviluppare tematiche diverse nella trentennale carriera di regista e
sceneggiatore (che lo riporterà a Bari per girare La riffa, il film del ’91 con l’esordiente Monica Bellucci), e
quasi a consuntivo del fervido tirocinio giovanile, Laudadio venticinquenne ha
lasciato in queste pagine un ritratto della nostra aurora di libertà, che conserva una freschezza sorprendente.
Pasquale Martino
«La
Gazzetta del Mezzogiorno», 5 aprile 2018