domenica 14 aprile 2024

Fabrizio Canfora

La stagione creativa dell'antifascismo barese 

Un uomo magro dalla barba bruna, vestito di bianco, il 28 luglio del 1943 è alla guida, con altri, della prima manifestazione autoconvocata che attraversa le vie di Bari dopo vent’anni di dittatura: è Fabrizio Canfora, trentenne, professore di filosofia e storia nel liceo classico Quinto Orazio Flacco. Suoi allievi sfilano fra i dimostranti; e molti guardano a lui come a un leader, un punto di riferimento morale e politico. Incitato e quasi sospinto da quei giovani, dalla finestra di una sede fascista occupata dagli antifascisti deve rivolgere brevi parole a quanti si sono radunati per manifestare; e anche questa è una prima volta in assoluto: un discorso di libertà risuona in pubblico nel capoluogo pugliese, tre giorni dopo la destituzione e l’arresto di Mussolini. La scena, che riprendiamo dal racconto dello scrittore Vito Maurogiovanni, allora diciassettenne, precede di pochi minuti la tragedia. La festosa giornata di liberazione e speranza precipita nella sventura: in via Niccolò dell’Arca i soldati, coadiuvati da provocatori fascisti, sparano sui dimostranti uccidendone almeno venti e ferendone molte decine. Tra i feriti Canfora, che sarà anche arrestato nel suo letto d’ospedale. L’antifascismo fa paura al re e a Badoglio; e il fascismo non è morto.

L’esperienza drammatica di una libertà intravista ma ancora tutta da conquistare, di un fascismo caduto ma tuttora vivente, sarà il rovello del giovane professore nei mesi che seguono. Lunghi mesi di intenso impegno per la ricostruzione democratica, mentre al Nord divampa la guerra di Liberazione. A quel discrimine Canfora era arrivato attraversando un tempo non breve di formazione intellettuale e politica: decisiva era stata la scuola di Benedetto Croce (periodicamente ospite a Bari dell’editore Giovanni Laterza) e di Tommaso Fiore, l’intellettuale altamurano (che perderà un figlio nell’eccidio del 28 luglio ’43) animatore del gruppo liberalsocialista barese confluito poi nel Partito d’Azione. Entrambi, Fiore e Canfora – e non solo loro – perseguitati dalla polizia fascista.


Già nei primi anni ’40 Canfora, immaginando la fine del regime, propugna il superamento del liberalismo classico in direzione di un’apertura sociale e democratica, i cui termini si scorgono nel suo libro su Lo spirito laico (Laterza 1943). Ma gli scritti del fervido periodo venuto dopo l’8 settembre ’43, che si potrebbe definire come la stagione creativa dell’antifascismo barese – creativa in quanto si misura con l’azione pratica finalizzata a una radicale svolta politica – sono raccolti nel volume edito nel 1945 e intitolato Tra reazione e democrazia. Stampato nella tipografia Leonardo da Vinci (che diventerà casa editrice con lo stesso nome e in seguito darà luogo alla prestigiosa De Donato), il prezioso libro era andato quasi perduto, disperso in pochissime biblioteche pubbliche; viene ora opportunamente riedito in ristampa anastatica da Mario Adda, per la cooperazione virtuosa di Città Metropolitana, Museo civico di Bari e ANPI; presenta in appendice una riflessione dello stesso autore scritta a distanza di un trentennio, nel 1974, e una illuminante postfazione di Luciano Canfora, figlio di Fabrizio. A Luciano Canfora, con scelta assai congrua, il Comune di Bari ha affidato la lectio svolta a gennaio nel teatro Piccinni alla presenza del presidente della Repubblica, per celebrare gli 80 anni del Congresso dei CLN (28-29 gennaio 1944). Congresso che fu il risultato politico più importante ottenuto dall’antifascismo barese – nonostante la tenace ostilità del re e la diffidenza degli Alleati – e da quel nucleo azionista che ne era la componente più attiva.  Con grande profitto si rileggono i testi di Fabrizio Canfora – accompagnati da alcuni articoli firmati da Domenico Pàstina, l’antifascista tranese legato a lui da intenso sodalizio – apparsi per lo più in L’Italia del Popolo, primo organo di stampa che, pubblicato a Bari, espresse tra mille difficoltà finalmente una voce libera. La chiave di volta della lotta politica di quel momento fu – per adoperare le parole dello stesso Canfora – l’organizzazione della «anti-Vandea» nel Mezzogiorno, capace di contrastare il tentativo in atto di restaurazione monarchico-fascista e di prospettare un’uscita democratica dalla catastrofe italiana, una soluzione in armonia con la lotta partigiana che si combatteva nelle regioni settentrionali. 

Il che, sia pure al termine di un percorso più complesso di quanto quegli antifascisti pensassero, fu ciò che si realizzò con la Repubblica e con l’Assemblea costituente, che l’Italia non aveva avuto nel 1861. 

Pasquale Martino 

"La Gazzetta del Mezzogiorno", 14 aprile 2024

Immagini: 

Fabrizio Canfora con la moglie Rosa Cifarelli nel giorno del matrimonio, 24 aprile 1940 (courtesy Luciano Canfora). 

Copertina dell'edizione 1945 di Tra reazione e democrazia

 

 

 

 

 

 


 

 

venerdì 26 gennaio 2024

Internati Militari Italiani

Un'altra deportazione e un'altra Resistenza 

La tragica guerra degli "invisibili"


«Internati militari italiani». Italienische Militärinternierte, IMI. È il nome imposto dai nazisti ai soldati italiani presi prigionieri dopo l’8 settembre 1943, in Italia e all’estero. Furono circa 800.000: un numero esorbitante, che si spiega soltanto con l’impreparazione cui le truppe italiane, tenute all’oscuro dell’imminente armistizio, furono abbandonate dal re e dal governo Badoglio. La Wehrmacht invece, ben preparata, riuscì quasi dappertutto ad aver ragione delle difese italiane mandate allo sbando. 

     Internati militari – una definizione coniata per loro – e non prigionieri di guerra: non dovevano godere dei diritti e del trattamento prescritti dalla convenzione di Ginevra. Agli occhi dell’ex alleato germanico gli italiani erano traditori, e soprattutto erano – i militari di truppa – ulteriore massa da schiavizzare al servizio della insaziabile economia bellica del Reich. Almeno la grande maggioranza di essi. Gli IMI furono infatti posti di fronte a un’alternativa: arruolarsi nelle forze armate della neonata RSI, il governo fantoccio creato in Italia dai tedeschi, o restare a marcire nei Lager. Non furono proprio pochissimi quelli che andarono con i fascisti (quasi 200.000), anche se una parte di questi, rientrata in patria, disertò. Il che aggiunge valore alla scelta dei 600.000 e più, che preferirono dire no restando dietro il filo spinato ad affrontare la sofferenza, la malattia e non di rado la morte. In quasi 50.000 morirono, senza contare i tanti che tornarono dai Lager affetti da malattie incurabili e in fin di vita. Al sacrificio degli IMI ogni regione, ogni città d’Italia ha dato un doloroso contributo. L’apporto della Puglia è stato messo in evidenza, di recente, da una bella mostra allestita a Lecce: si calcola che almeno 30.000 siano stati gli internati pugliesi, e fra i 12.000 circa di cui si ha documentata notizia quasi 3.000 sono i caduti. Fra i pugliesi vogliamo citare una delle figure eminenti: il colonnello Francesco Grasso, che guidò la resistenza militare a Barletta l’11 settembre ’43, e il giorno dopo fu arrestato dai tedeschi, quindi deportato in Germania, riuscendo a tenere clandestinamente un diario che è stato pubblicato dalla figlia e poi dal nipote.

     Questa storia enorme – storia nazionale e collettiva – è stata a lungo poco studiata, sebbene incrociasse la memoria familiare di qualche milione di persone (protagonisti, figli, nipoti); memoria essa stessa riluttante ad esprimersi , perché «la guerra è acqua passata», e «questa brutta cosa è meglio dimenticarla». Né si è valutato, per molto tempo, che quella degli IMI fosse una vicenda che incontrava la Resistenza patriottica contro il nazifascismo; che l’internato militare fosse – per dirla con Alessandro Natta, reduce del Lager – «una via di mezzo tra il prigioniero di guerra e il perseguitato politico». Proprio il libro di Natta, dirigente comunista di spicco, costituisce un caso esemplare: scritto negli anni ’50, rifiutato allora da una casa editrice pur vicina al PCI, dové attendere quarant’anni per essere infine pubblicato da Einaudi (nel 1997) col titolo emblematico L’altra Resistenza. Perché, appunto, anche la reclusione degli IMI – animata da cosciente motivazione ideale in alcuni, da istintiva ripulsa in altri – fu espressione di quella Resistenza di cui si vanno riscoprendo da tempo le molteplici forme, armate e disarmate. Dopo gli studi pioneristici degli anni ’80-’90 (alcuni dei quali, fra i più notevoli, si devono a studiosi tedeschi: citiamo per tutti il saggio di Gerhard Schreiber edito nel 1992 dall’Ufficio storico dell’Esercito italiano), e dopo la messe di lavori biografici curati da parenti e amici che hanno scandagliato archivi privati e di famiglia oltre a quelli pubblici, il tema degli IMI ha conquistato un posto consolidato nella storiografia e in alcune sintesi di storia della Resistenza (si veda quella di Santo Peli, Einaudi 2006). 

     Giustamente atteso, dunque, è il convegno di studi che l’Associazione nazionale partigiani d’Italia e l’Istituto nazionale Ferruccio Parri (rete degli istituti storici della Resistenza) hanno deciso di svolgere a Bari il 17 e 18 novembre, chiamando al confronto alcuni dei più qualificati studiosi e studiose di quella vicenda, provenienti da varie università italiane (per l’Università di Bari, che patrocina l’evento con il Comune e la Regione, c’è lo storico Carlo Spagnolo che presiederà la sessione inaugurale) e chiedendo a Nicola Labanca dell’Università di Siena, fra i massimi studiosi di storia militare, di proporre l’introduzione generale ai lavori. Segno, la scelta del capoluogo pugliese, di attenzione verso la città e la regione, che stanno sviluppando un programma di celebrazione degli 80 anni della Resistenza senza dimenticare quanto di importante accadde allora in Puglia, parte integrante di quella grande storia.        

Pasquale Martino

"La Gazzetta del Mezzogiorno" 17 novembre 2023  

L'immagine è tratta dalla mostra Il treno degli IMI (Lecce, gennaio-marzo 2023)

mercoledì 2 agosto 2023

Strage di Bologna. Autori, vittime, depistaggi e un libro

Bellini, i mandanti, i NAR e un perdono tradito: La strage di Bologna di Paolo Morando (Feltrinelli) .


La bomba esplosa nella stazione di Bologna quarantatre anni fa, alle 10,25 del 2 agosto 1980, ha rappresentato con le sue 85 vittime il più grave attentato terroristico compiuto in Europa dopo la Seconda guerra mondiale. Per l’orrendo crimine sono stati condannati con sentenza definitiva i neofascisti Valerio Fioravanti e Francesca Mambro (ergastolo) e Luigi Ciavardini (trent’anni), cui in seguito si sono aggiunti, in primo grado, gli ergastoli per Gilberto Cavallini e Paolo Bellini. Tutti sono terroristi neri, giudicati responsabili di numerosi altri delitti. Per depistaggio delle indagini è stato condannato con sentenza definitiva il capo della loggia massonica P2 Licio Gelli. Nel 2020 la procura di Bologna ha concluso una ulteriore e complessa indagine indicando nei defunti Gelli e Federico D’Amato (direttore negli anni ’70 dell’ufficio Affari riservati del Ministero dell’Interno) i mandanti e organizzatori, con altri, della strage.    

Il lungo iter giudiziario, alcuni importanti sviluppi del quale sono ancora in corso, è raccontato, con accuratezza che nulla toglie alla leggibilità, da Paolo Morando nel libro La strage di Bologna. Bellini, i Nar, i mandanti e un perdono tradito (Feltrinelli 2023). L’autore, giornalista, ha pubblicato con Laterza Prima di Piazza Fontana. La prova generale (2019) e L’Ergastolano (2022), sulla strage di Peteano: ricostruzioni di cui il volume su Bologna è in qualche modo il completamento, quasi a configurare una sorta di trilogia che ripercorre il decennio delle trame nere e della strategia della tensione che ha insanguinato l’Italia, dalla bomba della Banca dell’Agricoltura di Milano a quella deflagrata nella sala d’aspetto del grande nodo ferroviario emiliano.

L’ingente materiale documentale accumulato in decenni di inchieste – Morando ne dà conto, con riferimento particolare agli sviluppi recenti – ha fatto emergere e delineato con crescente chiarezza il quadro degli obiettivi perseguiti e il senso politico dell’esecrando fatto di sangue: una pattuglia di killer spietati, professionisti del terrorismo nero, fu l’esecutrice del crimine; l’azione fu coadiuvata da una rete diffusa di estrema destra eversiva con agganci internazionali; i manovratori appartennero a quel ganglio di poteri che trovava un punto di incontro nella P2, scoperta nel 1981, attivissima negli anni precedenti (erano tutti iscritti alla loggia segreta i componenti del “comitato di crisi” governativo durante il sequestro Moro nel 1978) e anche dopo. La grande operazione stragista, in linea con la strategia della tensione nonostante il contesto diverso, aveva lo scopo di destabilizzare gli equilibri politici e produrre un drastico restringimento della democrazia in Italia.

Dai medesimi ambienti provenne un tenace tentativo di depistaggio (incentrato sulla presunta alternativa di una “pista palestinese”) nonché l’appoggio a una campagna innocentista volta a scagionare Mambro e Fioravanti, i quali si sono sempre dichiarati non colpevoli della strage, mentre hanno riconosciuto numerosi altri omicidi. Campagna che – coinvolgendo invero anche personalità di sinistra e del partito radicale – ha di certo agevolato la situazione alquanto paradossale per cui, condannati entrambi a otto ergastoli, i due ergastolani hanno visto estinta la loro pena dieci anni fa, dopo aver goduto di molti anni di semilibertà. E oggi Fioravanti, da libero cittadino, rilancia la pista “alternativa” proponendo la colpevolezza di una delle vittime della strage, Mauro Di Vittorio, additato dai depistatori quale estremista di sinistra potenzialmente pericoloso; e ciò, dopo aver ottenuto per sé e per la Mambro, sua moglie, il generoso perdono della sorella di Mauro, Anna, e aver usufruito di una magnanima lettera di Anna Di Vittorio per sostenere la richiesta di libertà della Mambro. È la meschina vicenda del “perdono tradito” cui Morando dedica la seconda parte del libro.


Un altro paradosso ci sembra risiedere nel fatto che la destra parlamentare, invece di limitarsi a rivendicare un’estraneità e un abisso incolmabile fra sé e quella esperienza stragista, abbia voluto  distinguersi nel sostegno alla tesi innocentista e, più in generale, “revisionista”, accreditando la “pista alternativa”. È difficile fare i conti fino in fondo con un passato che, piaccia o no, interseca il proprio. Tanto nefando ed empio è quel crimine che si vorrebbe togliergli, e far dimenticare, l’etichetta di destra. Che però resta, e i tribunali smontano ogni altra ipotetica matrice. 

Doveroso è infine ricordare le vittime, i loro nomi, la loro storie. Lo fa il libro di Morando, per alcune di esse; lo fanno, nelle proprie pagine in rete, l’Associazione tra i familiari delle vittime della strage e gli Archivi «per non dimenticare», per tutte le persone uccise. Vittime di ogni parte d’Italia, e anche straniere, perché il 2 agosto migliaia di persone transitavano per quella stazione diretti alle località di vacanza. Bari conta sette cittadini uccisi, il più alto numero dopo la città di Bologna. Due famiglie baresi furono decimate. Perirono Vito Diomede Fresa (62 anni), Errica Frigerio (57) e il loro figlio Francesco Diomede Fresa (14); si salvò la figlia Alessandra che non era partita. Furono dilaniate Silvana Serravalli (34 anni) e le nipoti Patrizia Messineo (18) e Sonia Burri (7); sopravvissero i genitori di Silvana, la sorella e il cognato che erano con lei. Cadde Giuseppe Patruno (18 anni), si salvò suo fratello; avevano accompagnato in stazione due turiste straniere. Tutti volevano trascorrere giorni sereni; morirono inopinatamente per una mostruosa congiura politico-criminale che comportava il cinico sacrificio di molte persone innocenti.

Pasquale Martino

Il testo è la versione estesa di un articolo apparso su "La Gazzetta del Mezzogiorno" il 2 agosto 2023


mercoledì 28 luglio 2021

Il tragico 28 luglio italiano del 1943

 Bari, Reggio Emilia, Italia. 

Quando Badoglio sparò sugli antifascisti 


    Le Officine Reggiane a Reggio Emilia

C’è un “altro” 28 luglio accanto a quello di Bari – quel tragico 28 luglio 1943, quando venti giovani che manifestavano esultando per la caduta del fascismo vennero uccisi in via Niccolò dell’Arca dalla fucileria di un reparto militare italiano. Ma in un’altra città, a Reggio Emilia, nelle stesse ore, un altro plotone dell’esercito sparò contro gli operai che uscivano dalle Officine Reggiane per il medesimo scopo: festeggiare la fine della dittatura e – si sperava – della guerra. Morirono nove lavoratori fra cui una donna incinta, Domenica Secchi. Le due città furono affratellate nel dolore, il loro lutto segnò oscuramente quell’inizio del dopo-fascismo che avrebbe voluto essere gioioso e benaugurante, e in cui il giubilo si trasformò subitamente in strazio e disperazione. «A Bari e a Reggio Emilia avvengono gli episodi più sanguinosi», scrivono Marcello Flores e Mimmo Franzinelli nella più recente storia della Resistenza (Laterza, 2019) ricostruendo, appunto, le premesse della futura lotta di Liberazione. Perché, in qualche modo, quegli studenti, maestri, apprendisti di Bari – fra cui il diciottenne Graziano Fiore, figlio del grande Tommaso – e quegli operai e operaie di Reggio Emilia furono gli inconsapevoli protagonisti di un prologo; perché una ancor più dura e lunga prova dovrà essere affrontata di lì a poche settimane per liberare davvero l’Italia dal fascismo, rinato grazie ai battaglioni tedeschi. E la Resistenza sarà fatta in massima parte da operai e operaie, apprendisti, maestri, studenti.


Reggio Emilia e Bari, dunque; ma non solo. Fra il 26 e il 28 luglio cadono uccisi  manifestanti a Roma, La Spezia, Savona, Milano, Travagliato. E a Sesto Fiorentino, Monfalcone, Genova, Canegrate, Desio, Sestri Ponente, Pozzuoli. “Piccoli eccidi” di due, tre, una persona, dei quali non c’è ancora una mappatura definitiva, un «atlante» simile a quello realizzato da Anpi e Istituto Parri per le stragi nazifasciste. Eccidi che assommano – secondo lo storico Luciano Casali, che ne ha scritto su «Patria indipendente» – a 65 morti e 269 feriti, seguiti da oltre 1.200 arresti. Secondo ricostruzioni diverse, il numero dei caduti è più alto. A puntare le armi contro i dimostranti è spesso la polizia, a volte è la milizia fascista ancora attiva, a Bari si spara anche dal balcone della federazione fascista, a Reggio Emilia sparano pure le guardie giurate della fabbrica. Ma soprattutto a far fuoco sugli antifascisti sono le Forze armate delle varie specialità, i bersaglieri a Reggio, gli alpini a Cuneo, la fanteria a Milano, gli autieri a Bari, dove partecipano alla sparatoria carabinieri e un sottufficiale di marina. «Piombo fraterno», lo definisce l’epigrafe sul monumento ai caduti del 28 luglio nel cimitero di Bari. L’esercito è pesantemente coinvolto nella repressione da Pietro Badoglio, il successore di Mussolini nominato dal re. E qui è la chiave di lettura dei giorni successivi alla deposizione del “duce”: il ferreo progetto di continuità affidato dalla monarchia a una dittatura militare, che del fascismo sopprime solo alcune espressioni ufficiali (il partito fascista viene sciolto) ma conserva – oltre alla guerra e all’alleanza coi nazisti – l’apparato statale, la milizia, quasi tutte le leggi comprese quelle razziali e per giorni e settimane non libera i prigionieri politici e nemmeno gli ebrei. È ancora negata la libertà politica, sindacale, di stampa, la nascita della democrazia è vista come il nemico, più che gli Alleati, molto più che i tedeschi.

Simbolo della continuità di regime è il generale Mario Roatta, capo di stato maggiore prima e dopo il 25 luglio, già alla guida dei servizi segreti che hanno assassinato i fratelli Rosselli, distintosi per spietatezza nelle guerre fasciste in Spagna e in Iugoslavia; con Badoglio, è il massimo responsabile dei massacri di fine luglio, scientemente predeterminati dalla circolare che, emanata la sera del 26 luglio quando il capo del governo si spaventa per l’estendersi delle manifestazioni popolari, impone ai militari di aprire il fuoco contro i dimostranti senza preavviso per «colpire come in combattimento». Soltanto a Spilamberto e a Reggio Emilia i soldati sparano in aria, contravvenendo agli ordini; a Reggio però l’ufficiale imbraccia l’arma personalmente, fa fuoco e comanda una seconda scarica, che stavolta falcia gli operai.

La “riconciliazione”, se così si può dire, fra soldati e popolo avverrà l’8 settembre, senza e contro gli ordini degli alti comandi: a Bari, nella difesa del porto dall’attacco tedesco; nell’Italia del Nord, quando nello sbandamento di un esercito senza più gerarchie migliaia di “figli di mamma” saranno protetti dalle famiglie contadine. Sarà l’alba di un’altra Italia, di cui il sacrificio del 28 luglio era stato il presagio.

Pasquale Martino 

Questo articolo è stato in parte pubblicato ne «La Gazzetta del Mezzogiorno», pagina di cultura, 28 luglio 2021               

 

 

domenica 25 aprile 2021

Donne nella Resistenza

 

Le antifasciste che fecero l'impresa

Combattenti, staffette, resistenti

Partigiane in Emilia, inverno 1944-45 (ISR Novara)


Donne nella Resistenza. Grande tema, studiato e discusso nell’ultimo quarto di secolo, almeno a partire dal saggio di Anna Bravo e Annamaria Bruzzone (In guerra senza armi, Laterza 1995). Prima, il protagonismo femminile non era ignorato: Luigi Longo ne aveva riconosciuto il rilievo nel suo libro del 1947; per non dire del romanzo di Renata Viganò, L’Agnese va a morire (1949), e del documentario di Liliana Cavani (1965). Ma alle spalle del successivo lavoro di Bravo e Bruzzone c’era una metodologia che aveva fatto strada da un paio di decenni: la “storia sociale” del movimento di Liberazione, indagatrice dei comportamenti “dal basso” che nella società avevano alimentato la lotta contro il nazifascismo. E le donne erano gran parte di questa dimensione sociale: dove non si trattava di studiare le azioni delle figure per qualsiasi motivo eminenti – tra le quali le donne scarseggiavano – ma di indagare l’insieme di atti individuali, di convincimenti vecchi e nuovi, di moti sentimentali che avevano costituito un senso collettivo, un orientamento molecolare di masse grandi se non maggioritarie, avevano foggiato quella che Claudio Pavone chiamò la “moralità” della Resistenza. Anna Bravo istituiva peraltro un nesso molto stretto fra l’agire delle donne e la “resistenza civile” (su quest’ultima scrisse un saggio per il Dizionario della Resistenza curato da Enzo Collotti): dominio femminile era stata precipuamente la lotta non armata, fatta di mille azioni quotidiane di disobbedienza, sabotaggio, propaganda, sostegno logistico, protesta di piazza; azioni che dettero corpo al rifiuto popolare del fascismo e dell’occupante tedesco, alla ribellione in qualsiasi forma, senza le quali la guerra partigiana non sarebbe stata.


Il tema si colloca ai primi posti della pubblicistica corrente sul movimento di Liberazione in Italia; libri e film ne parlano, sono apparse testimonianze di partigiane: Marisa Ombra (editore Einaudì), Lidia Menapace (editore Manni), ancora Menapace e molte altre nel volume Noi partigiani (Feltrinelli). Ma lo stato dell’arte è quello di un lavoro in corso, ben lungi dall’apparire vicino a una qualche compiutezza. I documenti sono rari; le informazioni biografiche spesso si riducono a un nome e a un luogo. Lo stesso portale online Partigiani d’Italia, che raccoglie gli archivi delle schede di riconoscimento dell’attività partigiana, non rende piena giustizia alle donne, per il semplice fatto che molte di esse non ottennero la qualifica di partigiane e nemmeno la chiesero: nella restaurazione patriarcale che seguiva alla rottura liberatoria della rivolta resistenziale, la donna tornava “al posto suo”. Chi aveva rischiato la vita per portare messaggi, armi, esplosivi oltre i posti di blocco nemici, offerto pasti ai combattenti o preso parte ai gruppi di difesa della donna non riteneva di aver fatto niente di straordinario, se non prestare un umile servizio. Nei capovolgimenti politici del dopoguerra aver partecipato alla guerra partigiana rischiava di apparire un disvalore, specie per una donna che aveva fatto “cose da uomo” e s’era mischiata con uomini. 

Maria Santamato



Un impulso viene, oggi, dalla ricerca capillare e in profondità nei singoli territori, capace di recuperare figure cadute nel dimenticatoio, scovare documenti inediti in archivi locali, svegliare memorie familiari mai esplorate. 

È importante il nuovo interesse che nel capoluogo pugliese suscita Alba De Céspedes, scrittrice conosciuta e meno nota partigiana, che fu cronista di Radio Bari nei giorni gloriosi del congresso dei CLN e della guerra di Liberazione. Emblematica è la scelta dell’Anpi di Corato, di intitolare la sezione alla concittadina Maria Diaferia, combattente di «Bandiera Rossa» a Roma. Utilissima è la monografia del ricercatore salentino Ippazio Luceri, che ha fatto uscire il suo volume in coincidenza con l’8 marzo scorso: pubblicato con il sostegno del Comune di Martano e dell’Arci Lecce, il libro si intitola Brillan nel cielo….; raccoglie molte preziose notizie sulle donne della Resistenza, sulle decorate al valore e sulle partigiane pugliesi. Senza riprendere i capitoli riservati al quadro nazionale della presenza femminile, annotiamo la rassegna delle combattenti decorate in Italia (19 medaglie d’oro, 37 d’argento, 28 medaglie di bronzo e croci di guerra) – le motivazioni delle medaglie citano spesso il coraggio «virile» della donna! – e soprattutto il capitolo che presenta, per la prima volta, le schede nominative di 134 partigiane pugliesi, corredate da notizie biografiche, fotografie e fonti. È un punto di arrivo di laboriose ricerche, e nello stesso tempo una base di partenza per chi approfondirà le singole biografie. Vicende individuali, ognuna segnata da circostanze singolari e irripetibili e nel suo microcosmo rappresentativa di una condizione generale. Facciamo solo due esempi. Maria Santamato, nata a Bari e domiciliata a Toritto, è sergente della Divisione Arditi di Napoli; delle sue delicate missioni in alta Italia non parlerà mai, tanto che i familiari – racconta la nipote Francesca Bottalico – non sapranno quasi nulla di tale attività; le carte emergono dopo la morte. La canosina Anna Maria Princigalli, laureata in filosofia a Firenze, tubercolotica in cura, partigiana nel Verbano, catturata dai tedeschi, salvatasi e perciò colpita da voce calunniosa (ma si scoprì che il delatore era un uomo), è internata in manicomio per traumi postbellici; dimessa, milita nel Pci, come pedagogista partecipa alla fondazione dei convitti Rinascita nonché all’esperienza degli asili dell’Anpi; muore a soli 53 anni. Meriterebbe un’organica biografia; se ne sta occupando con passione il nipote Giovanni Princigalli, che ha ritrovato e messo insieme i primi documenti sulla sua travagliata esistenza.         

 

Anna Maria Princigalli

Pasquale Martino

«La Gazzetta del Mezzogiorno», 25 aprile 2021     

 


 

domenica 11 aprile 2021

Miti d'Enea

La storia multiforme di Enea

 e il libro di Mario Lentano

 



Esistono molti Enea. In fondo, sono sempre esistiti. L’eroe troiano, di cui Virgilio nel poema a lui intitolato narra che sia stato il progenitore dei Romani, è il «pio Enea» fedele alla missione provvidenziale che gli è stata imposta; è il profugo errabondo che stenta a essere accolto in terre inospitali; è il guerriero triste che ha compassione dei vinti e delle giovani vite stroncate. Ma è d’altronde colui che ha smesso di combattere per la patria, Troia, abbandonandola al suo tragico destino; è colui che ha tradito l’amore di una donna, lasciando Didone disperata che a lui era incondizionatamente devota; ed è infine – si pensi al romanzo di Sebastiano Vassalli, Un infinito numero (1999) – un violento massacratore del popolo da lui aggredito in terra italica. Questa pluralità di anime e di tipi sembra accompagnare quella figura mitica fin dai primordi, ed è potuta coesistere non soltanto in tradizioni parallele, capaci di riprodursi in molte epoche successive, ma talvolta all’interno della stessa opera: come è il caso appunto dell’Eneide, il cui protagonista onora profondamente il padre Anchise e non sa amare una donna che lo ama, compiange il giovane Lauso dopo averlo ucciso in combattimento ma non ferma la propria mano omicida davanti a Turno che lo implora di risparmiarlo. E questa è la fine del poema, quanto mai inquietante e densa di interrogativi.

     Personaggio mitologico e letterario assai complesso e in un certo senso irrisolto, il figlio di Anchise e di Venere fa parlare di sé in più di un libro apparso negli ultimi mesi del 2020: La lezione di Enea di Andrea Marcolongo (Laterza) ne tratteggia l’immagine di eroe sconfitto e, nonostante tutto, costruttore; Enea, lo straniero, di Giulio Guidorizzi (Einaudi) esalta la sua rinuncia anticonvenzionale a perseguire la propria gloria individuale e la scelta di votarsi alla salvezza di una comunità superstite. Filologia, antropologia e critica del mito sono le piste che Mario Lentano percorre simultaneamente nel suo Enea. L’ultimo dei Troiani, il primo dei Romani (Salerno). Laureatosi in letteratura latina a Bari, Lentano ha insegnato nei licei, è docente universitario a Siena e membro del Centro di Antropologia e mondo antico. Ci piace ricordare qui i suoi esordi con volumetti dotti e gustosi (Seneca sul matrimonio, i roghi dei libri a Roma, la poesia “politica” di Catullo) curati per le edizioni Palomar di Bari, che l’intelligente Gianfranco Cosma seppe dotare di un catalogo di tutto rispetto.

     Il suo lavoro sul leggendario capostipite della gens Iulia, antenato di Cesare e Augusto, è frutto di studi che si sono tradotti in numerosi saggi su riviste di antichistica e in un precedente volume, Il mito di Enea, (Einaudi 2013), scritto con Maurizio Bettini – «il mio maestro di sempre», dice Lentano.

     Ciò che distingue il suo ultimo libro dalle precedenti prove è un modello narrativo che ridisegna la vita del personaggio omerico e virgiliano secondo il metodo di una biografia, dalla nascita alla morte; non a caso il volume esce in una prestigiosa collana di profili biografici, fondata da Luigi Firpo e diretta da Andrea Giardina. Solo che il personaggio non vive nella storia, bensì nel mito. Perciò le varianti della paradossale biografia sono molte, quanti furono i racconti nel corso di duemila anni e più. Il mito – scrive Lentano – «rimane permanentemente allo stato fluido, senza mai cristallizzare una versione definitiva». Ogni segmento della vita di Enea, dunque, si misura con fonti letterarie diverse e contrastanti. E se il segmento più noto grazie al poema virgiliano ha acquisito una “ortodossia” che ai nostri occhi è prevalente – Enea vive la sua Odissea nel Mediterraneo e la sua Iliade combattendo nel Lazio per dare ai Troiani una nuova patria, che in prospettiva sarà Roma – è il capitolo precedente, d’altra parte, a comparirci “aperto”, foriero di un futuro del tutto diverso. Che ruolo ebbe Enea durante la decennale guerra di Troia? Perché, davvero, si salvò? E dopo quel miracoloso salvataggio, dove veramente è andato a finire? Mentre la letteratura latina fin da Nevio ed Ennio si appropriava del Fondatore stabilendo una versione “autorizzata” che Virgilio arricchì apportandovi, con Augusto, un crisma ufficiale, per converso in ambito greco persistevano poemi e tragedie di cui non abbiamo più il testo, ma abbiano notizie, i quali dicevano tutt’altro: che Enea era in dissidio col re troiano Priamo (e ciò s’intuisce già nell’Iliade); che il figlio di Anchise tradì la causa e perciò si salvò; che un nucleo troiano rifondò la patria in Troade; che Enea fondò città altrove, non in Lazio.

     Risposte che figurano, in parte, nei resoconti attribuiti a leggendari testimoni della guerra di Troia, Darete Frigio e Ditti Cretese; scritti che ebbero diffusione nell’impero romano: Ditti sarebbe stato riscoperto da Nerone, che lo fece tradurre dal fenicio al greco. Dunque, la “classicità” di Virgilio non era ancora incontrastata, specie nella “anticlassicista” corte neroniana, dove molto si scriveva sulla guerra iliaca, poco e nulla su Enea: eppure Nerone era l’ultimo della gens Iulia! Darete e Ditti arrivano fino al Medioevo con le loro leggende greco-troiane (si pensi al fortunatissimo Roman de Troie del XII secolo), tanto da costituire un “canone” in grado di competere con quello virgiliano fatto proprio da Dante. E poi ancora, saranno i Turchi del potente impero ottomano a proclamarsi discendenti dei Troiani; altro che Roma! Storie di tradizioni che viaggiano, che si travasano di testo in testo, e a seconda della temperie storica assumono valenze pubbliche e politiche. Una vicenda dai tratti avvincenti, che la bella prosa di Mario Lentano restituisce al lettore non necessariamente specialista.  

 

Pasquale Martino   

«La Gazzetta del Mezzogiorno», 11 aprile 2021               

Immagine: Enea fugge da Troia, incisione di Agostino Carracci da Federico Barocci (1595)

lunedì 4 gennaio 2021

Nel centenario del Pci

IL SECOLO COMUNISTA

La speranza rivoluzionaria, l’antifascismo, la democrazia repubblicana

 


«Nato male e un po’ per sbaglio nel gennaio 1921, da una scissione di minoranza che presto deluse anche i suoi artefici, seppe trovare la sua strada cammin facendo». Così vent’anni fa lo storico Gianpasquale Santomassimo descriveva la fondazione del Partito comunista italiano. Oggi, il centenario della nascita (il prossimo 21 gennaio) di questo grande protagonista collettivo della storia del Novecento – che ha cessato di esistere nel febbraio del 1991 – è già tema di discussione sui giornali e nei libri.

Nato male per responsabilità molteplici. Nato sbagliando i tempi, in un momento storico di travolgente velocità dei mutamenti, quando poche settimane valgono un cambio d’epoca. È il tempo in cui, per esempio, riformismo e massimalismo – le due anime del Partito socialista – voglion dire per le masse proletarie qualcosa di ben diverso dai significati attuali. La Grande Guerra da poco finita ha abbattuto quattro imperi, generato la prima rivoluzione socialista e messo in crisi gli stati liberali che hanno escluso la partecipazione delle masse popolari (in ciò del tutto differenti dalle democrazie sociali e costituzionali che saranno a loro volta l’esito della guerra antinazista e della Resistenza europea). Dopo l’esempio della Russia di Lenin, il «governo del popolo» appare l’unica soluzione credibile, specialmente nell’Italia del Biennio rosso (1919-1920), grazie al clamoroso successo elettorale del Psi nel 1919 (due milioni di voti su cinque, primo partito alla Camera), ai moti agrari e all’occupazione delle fabbriche, mentre a Est l’Armata Rossa respinge l’assalto di controrivoluzionari bianchi e polacchi (estate del ’20), contrattacca e pare slanciarsi verso la Germania, anch’essa in procinto di fare la sua rivoluzione. L’Internazionale Comunista è la nuova attrice che si impone sul proscenio mondiale, spaventando le classi borghesi.

Ma le cose cambiano, appunto, con impressionante rapidità: in Italia la spinta di lotta si va esaurendo, l’occupazione delle fabbriche si conclude con un insuccesso, manca una guida politica del movimento; contenitore eterogeneo di deputati, sindaci, sindacalisti, il Psi non sa dirigere né un movimento rivoluzionario né una riforma democratica delle anguste istituzioni liberali. L’alternativa comunista affascina col suo progetto di un partito omogeneo, capace di guidare fermamente la necessaria rivoluzione. Non di rado, in Europa, l’idea diventa maggioritaria nei partiti socialisti. In Italia la questione della sinistra non è se accettare o respingere l’opzione comunista: è se tutto il Psi rappresenterà l’Internazionale, come assicura la maggioranza capeggiata da Giacinto Menotti Serrati, o se tale rappresentanza sarà appannaggio della sola frazione comunista intransigente, guidata da Amadeo Bordiga che diventerà il leader carismatico del Pci nei primi anni. Il nodo si scioglie drammaticamente a Livorno, nel XVII congresso del Psi: Serrati non se la sente di rompere con la minoranza “di destra”, che fa capo a Turati; l’estrema sinistra abbandona il congresso e fonda il Partito comunista d’Italia. Ai dirigenti dell’Internazionale resta l’amaro in bocca per una condotta tattica improvvida che ha ottenuto come risultato la nascita di un partito minoritario. Bordiga è invece soddisfatto: ha in mano un’organizzazione compatta, costituita in grandissima parte di operai. Nessuno al momento – né i socialisti, né il Pci, né i cattolici, né il vecchio statista Giolitti – sembra comprendere la vera portata del pericolo fascista: lo squadrismo ha già compiuto i primi assalti nel 1920, ma soltanto nel ’21 dispiega in modo sistematico la sua violenza terrorizzante. Chi vede le ombre della situazione è Antonio Gramsci, capo del gruppo torinese de «L’Ordine nuovo», minoranza nel neonato partito; sarà lui, in un appunto di qualche mese dopo (pubblicato da Togliatti nel 1960), a scrivere che il non aver portato, a Livorno, la maggioranza del proletariato italiano nelle file dell’Internazionale è stato «un trionfo della reazione».

Paradossalmente, nel 1924 lo stesso Serrati, con la frazione dei terzinternazionalisti, finirà con il confluire nel Pci. Ma è già iniziato il profondo lavoro gramsciano di analisi sociale, elaborazione politica, chiarificazione ideologica, che sboccherà nella sostituzione della direzione di Bordiga, viziata da settarismo, e in quella che si può considerare la vera nascita del Pci, il congresso di Lione (1926): il quale si svolge all’estero in piena stretta repressiva del regime fascista. La «dannazione» di Livorno – per usare le parole di Ezio Mauro nel suo ultimo libro – lascerà faticosamente il posto al tentativo di «grande rattoppo» nella sinistra, non ancora concluso. La metafora ripropone l’idea convenzionale di una eterna propensione della sinistra italiana alle divisioni. Va detto piuttosto che proprio i duri anni della clandestinità temprano la capacità del Pci di tenere le fila di un difficilissimo lavoro illegale in Italia, nelle prigioni e nei luoghi di confino, e preparano la terza e definitiva rifondazione, quella della Resistenza e del «partito nuovo», popolare e di massa. E va detto che il legame unitario fra comunisti e socialisti si stabilisce fin dal 1934, vivifica l’antifascismo e la lotta di Liberazione e con intensità alterna dura per tutta la Prima repubblica, fino agli anni di Craxi. Poi entrambi i partiti, separatamente e con epiloghi diversi, scompaiono; e «il modo (questo sì) ancor m’offende».        

 Pasquale Martino

  

Ruggero Grieco

Pugliesi a Livorno

Piccola e qualificata la schiera pugliese che partecipa da subito all’impresa di fondazione del Pci. Nel 1921 sono 655 iscritti su un totale nazionale di circa 40.000. Ecco alcuni nomi. La pioniera è Rita Maierotti, veneta trapiantata a Bari, presente con Bordiga e Gramsci fra la ventina di delegati socialisti che a Firenze nel 1917 getta le basi della frazione comunista (lo racconta Paolo Spriano nella sua storia del Pci). È una delle poche donne agli inizi del partito, con Ortensia De Meo (moglie di Bordiga) e  Camilla Ravera. A Livorno Rita è affiancata dal marito, il gravinese Filippo D’Agostino, consigliere comunale a Bari, futuro martire della Resistenza. Da Taranto arriva Odoardo Voccoli, che sarà il primo sindaco della città ionica dopo la Liberazione. Da Foggia c’è Luigi Allegato, che diventerà sindaco di San Severo e presidente della provincia. L’ispiratore dei comunisti foggiani – lo ricorda lo stesso Allegato – è il conterraneo Ruggero Grieco, figura di spicco del Pci fin dal primo comitato centrale, braccio destro di Bordiga e numero due del partito. In seguito si avvicinerà a Gramsci conservando un ruolo di rilievo nel nuovo gruppo dirigente, tanto da fungere di fatto da segretario del partito e dirigente del centro estero negli anni ’30, mentre Togliatti opera a Mosca per l’Internazionale. Sarà membro della Costituente e senatore della repubblica.  (p.m.)


La Gazzetta del Mezzogiorno, 3 gennaio 2021