Le antifasciste che fecero l'impresa
Combattenti, staffette, resistenti
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Partigiane in Emilia, inverno 1944-45 (ISR Novara) |
Donne
nella Resistenza. Grande tema, studiato e discusso nell’ultimo quarto di secolo,
almeno a partire dal saggio di Anna Bravo e Annamaria Bruzzone (In guerra senza armi, Laterza 1995). Prima,
il protagonismo femminile non era ignorato: Luigi Longo ne aveva riconosciuto
il rilievo nel suo libro del 1947; per non dire del romanzo di Renata Viganò, L’Agnese va a morire (1949), e del
documentario di Liliana Cavani (1965). Ma alle spalle del successivo lavoro di
Bravo e Bruzzone c’era una metodologia che aveva fatto strada da un paio di
decenni: la “storia sociale” del movimento di Liberazione, indagatrice dei
comportamenti “dal basso” che nella società avevano alimentato la lotta contro
il nazifascismo. E le donne erano gran parte di questa dimensione sociale: dove
non si trattava di studiare le azioni delle figure per qualsiasi motivo
eminenti – tra le quali le donne scarseggiavano – ma di indagare l’insieme di
atti individuali, di convincimenti vecchi e nuovi, di moti sentimentali che
avevano costituito un senso collettivo, un orientamento molecolare di masse
grandi se non maggioritarie, avevano foggiato quella che Claudio Pavone chiamò
la “moralità” della Resistenza. Anna Bravo istituiva peraltro un nesso molto
stretto fra l’agire delle donne e la “resistenza civile” (su quest’ultima scrisse
un saggio per il Dizionario della
Resistenza curato da Enzo Collotti): dominio femminile era stata precipuamente
la lotta non armata, fatta di mille azioni quotidiane di disobbedienza,
sabotaggio, propaganda, sostegno logistico, protesta di piazza; azioni che
dettero corpo al rifiuto popolare del fascismo e dell’occupante tedesco, alla
ribellione in qualsiasi forma, senza le quali la guerra partigiana non sarebbe
stata.
Il
tema si colloca ai primi posti della pubblicistica corrente sul movimento di
Liberazione in Italia; libri e film ne parlano, sono apparse testimonianze di
partigiane: Marisa Ombra (editore Einaudì), Lidia Menapace (editore Manni),
ancora Menapace e molte altre nel volume Noi
partigiani (Feltrinelli). Ma lo stato dell’arte è quello di un lavoro in
corso, ben lungi dall’apparire vicino a una qualche compiutezza. I documenti
sono rari; le informazioni biografiche spesso si riducono a un nome e a un
luogo. Lo stesso portale online Partigiani
d’Italia, che raccoglie gli archivi delle schede di riconoscimento
dell’attività partigiana, non rende piena giustizia alle donne, per il semplice
fatto che molte di esse non ottennero la qualifica di partigiane e nemmeno la
chiesero: nella restaurazione patriarcale che seguiva alla rottura liberatoria
della rivolta resistenziale, la donna tornava “al posto suo”. Chi aveva rischiato
la vita per portare messaggi, armi, esplosivi oltre i posti di blocco nemici, offerto
pasti ai combattenti o preso parte ai gruppi di difesa della donna non riteneva
di aver fatto niente di straordinario, se non prestare un umile servizio. Nei
capovolgimenti politici del dopoguerra aver partecipato alla guerra partigiana
rischiava di apparire un disvalore, specie per una donna che aveva fatto “cose
da uomo” e s’era mischiata con uomini.
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Maria Santamato |
Un impulso viene, oggi, dalla ricerca capillare
e in profondità nei singoli territori, capace di recuperare figure cadute nel
dimenticatoio, scovare documenti inediti in archivi locali, svegliare memorie
familiari mai esplorate.
È importante il nuovo interesse che nel capoluogo
pugliese suscita Alba De Céspedes, scrittrice conosciuta e meno nota
partigiana, che fu cronista di Radio Bari nei giorni gloriosi del congresso dei
CLN e della guerra di Liberazione. Emblematica è la scelta dell’Anpi di Corato,
di intitolare la sezione alla concittadina Maria Diaferia, combattente di «Bandiera
Rossa» a Roma. Utilissima è la monografia del ricercatore salentino Ippazio
Luceri, che ha fatto uscire il suo volume in coincidenza con l’8 marzo scorso: pubblicato
con il sostegno del Comune di Martano e dell’Arci Lecce, il libro si intitola Brillan nel cielo….; raccoglie molte
preziose notizie sulle donne della Resistenza, sulle decorate al valore e sulle
partigiane pugliesi. Senza riprendere i capitoli riservati al quadro nazionale della
presenza femminile, annotiamo la rassegna delle combattenti decorate in Italia (19
medaglie d’oro, 37 d’argento, 28 medaglie di bronzo e croci di guerra) – le
motivazioni delle medaglie citano spesso il coraggio «virile» della donna! – e soprattutto
il capitolo che presenta, per la prima volta, le schede nominative di 134 partigiane
pugliesi, corredate da notizie biografiche, fotografie e fonti. È un punto di
arrivo di laboriose ricerche, e nello stesso tempo una base di partenza per chi
approfondirà le singole biografie. Vicende individuali, ognuna segnata da
circostanze singolari e irripetibili e nel suo microcosmo rappresentativa di
una condizione generale. Facciamo solo due esempi. Maria Santamato, nata a Bari
e domiciliata a Toritto, è sergente della Divisione Arditi di Napoli; delle sue
delicate missioni in alta Italia non parlerà mai, tanto che i familiari –
racconta la nipote Francesca Bottalico – non sapranno quasi nulla di tale
attività; le carte emergono dopo la morte. La canosina Anna Maria Princigalli,
laureata in filosofia a Firenze, tubercolotica in cura, partigiana nel Verbano,
catturata dai tedeschi, salvatasi e perciò colpita da voce calunniosa (ma si
scoprì che il delatore era un uomo), è internata in manicomio per traumi
postbellici; dimessa, milita nel Pci, come pedagogista partecipa alla
fondazione dei convitti Rinascita nonché all’esperienza degli asili dell’Anpi;
muore a soli 53 anni. Meriterebbe un’organica biografia; se ne sta occupando
con passione il nipote Giovanni Princigalli, che ha ritrovato e messo insieme i
primi documenti sulla sua travagliata esistenza.
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Anna Maria Princigalli |
Pasquale Martino
«La
Gazzetta del Mezzogiorno», 25 aprile 2021