domenica 25 aprile 2021

Donne nella Resistenza

 

Le antifasciste che fecero l'impresa

Combattenti, staffette, resistenti

Partigiane in Emilia, inverno 1944-45 (ISR Novara)


Donne nella Resistenza. Grande tema, studiato e discusso nell’ultimo quarto di secolo, almeno a partire dal saggio di Anna Bravo e Annamaria Bruzzone (In guerra senza armi, Laterza 1995). Prima, il protagonismo femminile non era ignorato: Luigi Longo ne aveva riconosciuto il rilievo nel suo libro del 1947; per non dire del romanzo di Renata Viganò, L’Agnese va a morire (1949), e del documentario di Liliana Cavani (1965). Ma alle spalle del successivo lavoro di Bravo e Bruzzone c’era una metodologia che aveva fatto strada da un paio di decenni: la “storia sociale” del movimento di Liberazione, indagatrice dei comportamenti “dal basso” che nella società avevano alimentato la lotta contro il nazifascismo. E le donne erano gran parte di questa dimensione sociale: dove non si trattava di studiare le azioni delle figure per qualsiasi motivo eminenti – tra le quali le donne scarseggiavano – ma di indagare l’insieme di atti individuali, di convincimenti vecchi e nuovi, di moti sentimentali che avevano costituito un senso collettivo, un orientamento molecolare di masse grandi se non maggioritarie, avevano foggiato quella che Claudio Pavone chiamò la “moralità” della Resistenza. Anna Bravo istituiva peraltro un nesso molto stretto fra l’agire delle donne e la “resistenza civile” (su quest’ultima scrisse un saggio per il Dizionario della Resistenza curato da Enzo Collotti): dominio femminile era stata precipuamente la lotta non armata, fatta di mille azioni quotidiane di disobbedienza, sabotaggio, propaganda, sostegno logistico, protesta di piazza; azioni che dettero corpo al rifiuto popolare del fascismo e dell’occupante tedesco, alla ribellione in qualsiasi forma, senza le quali la guerra partigiana non sarebbe stata.


Il tema si colloca ai primi posti della pubblicistica corrente sul movimento di Liberazione in Italia; libri e film ne parlano, sono apparse testimonianze di partigiane: Marisa Ombra (editore Einaudì), Lidia Menapace (editore Manni), ancora Menapace e molte altre nel volume Noi partigiani (Feltrinelli). Ma lo stato dell’arte è quello di un lavoro in corso, ben lungi dall’apparire vicino a una qualche compiutezza. I documenti sono rari; le informazioni biografiche spesso si riducono a un nome e a un luogo. Lo stesso portale online Partigiani d’Italia, che raccoglie gli archivi delle schede di riconoscimento dell’attività partigiana, non rende piena giustizia alle donne, per il semplice fatto che molte di esse non ottennero la qualifica di partigiane e nemmeno la chiesero: nella restaurazione patriarcale che seguiva alla rottura liberatoria della rivolta resistenziale, la donna tornava “al posto suo”. Chi aveva rischiato la vita per portare messaggi, armi, esplosivi oltre i posti di blocco nemici, offerto pasti ai combattenti o preso parte ai gruppi di difesa della donna non riteneva di aver fatto niente di straordinario, se non prestare un umile servizio. Nei capovolgimenti politici del dopoguerra aver partecipato alla guerra partigiana rischiava di apparire un disvalore, specie per una donna che aveva fatto “cose da uomo” e s’era mischiata con uomini. 

Maria Santamato



Un impulso viene, oggi, dalla ricerca capillare e in profondità nei singoli territori, capace di recuperare figure cadute nel dimenticatoio, scovare documenti inediti in archivi locali, svegliare memorie familiari mai esplorate. 

È importante il nuovo interesse che nel capoluogo pugliese suscita Alba De Céspedes, scrittrice conosciuta e meno nota partigiana, che fu cronista di Radio Bari nei giorni gloriosi del congresso dei CLN e della guerra di Liberazione. Emblematica è la scelta dell’Anpi di Corato, di intitolare la sezione alla concittadina Maria Diaferia, combattente di «Bandiera Rossa» a Roma. Utilissima è la monografia del ricercatore salentino Ippazio Luceri, che ha fatto uscire il suo volume in coincidenza con l’8 marzo scorso: pubblicato con il sostegno del Comune di Martano e dell’Arci Lecce, il libro si intitola Brillan nel cielo….; raccoglie molte preziose notizie sulle donne della Resistenza, sulle decorate al valore e sulle partigiane pugliesi. Senza riprendere i capitoli riservati al quadro nazionale della presenza femminile, annotiamo la rassegna delle combattenti decorate in Italia (19 medaglie d’oro, 37 d’argento, 28 medaglie di bronzo e croci di guerra) – le motivazioni delle medaglie citano spesso il coraggio «virile» della donna! – e soprattutto il capitolo che presenta, per la prima volta, le schede nominative di 134 partigiane pugliesi, corredate da notizie biografiche, fotografie e fonti. È un punto di arrivo di laboriose ricerche, e nello stesso tempo una base di partenza per chi approfondirà le singole biografie. Vicende individuali, ognuna segnata da circostanze singolari e irripetibili e nel suo microcosmo rappresentativa di una condizione generale. Facciamo solo due esempi. Maria Santamato, nata a Bari e domiciliata a Toritto, è sergente della Divisione Arditi di Napoli; delle sue delicate missioni in alta Italia non parlerà mai, tanto che i familiari – racconta la nipote Francesca Bottalico – non sapranno quasi nulla di tale attività; le carte emergono dopo la morte. La canosina Anna Maria Princigalli, laureata in filosofia a Firenze, tubercolotica in cura, partigiana nel Verbano, catturata dai tedeschi, salvatasi e perciò colpita da voce calunniosa (ma si scoprì che il delatore era un uomo), è internata in manicomio per traumi postbellici; dimessa, milita nel Pci, come pedagogista partecipa alla fondazione dei convitti Rinascita nonché all’esperienza degli asili dell’Anpi; muore a soli 53 anni. Meriterebbe un’organica biografia; se ne sta occupando con passione il nipote Giovanni Princigalli, che ha ritrovato e messo insieme i primi documenti sulla sua travagliata esistenza.         

 

Anna Maria Princigalli

Pasquale Martino

«La Gazzetta del Mezzogiorno», 25 aprile 2021